LA ROTTA DI RONCISVALLE
Si tolse la scarpa ed infilò il piede dentro quella specie di rudimentale zoccolo ricavato da un pezzo di legno al quale era stata data la forma di una pianta di piede. Battendolo forte e a ritmo sostenuto sul tavolaccio, avrebbe provocato, nel corso dello spettacolo, quell'infernale fragore senza il quale sarebbe stato difficile dare verosimiglianza e vigore alla rappresentazione delle battaglie. L'afrore, aspro e nauseante di sudore e di scarpa vecchia, si diffuse nell'aria rarefatta dell'angusto palcoscenico dell'Opera dei Pupi, si sovrappose all'odore dolciastro di legno umido e di rinchiuso e si trasformò in una mefitica miscela di insopportabile puzzura. Don Angelo strizzò gli occhi piccoli e azzurri e senza astio mi fissò dritto in faccia come se solo guardandomi, avrebbe potuto impedirmi di parlare e scansarsi, così dall'impaccio di dover rispondere ad una domanda, la solita, che si aspettava, e che non gli piaceva e alla quale non sapeva rispondere. Senza alcun indugio, dunque, sbottò deciso: Il telone! Il telone! CONTINUA…
'Sto cazzo di telone di Roncisvalle! Non lo voglio più sentirtelo nominare. T'ho detto che lo faremo! E lo faremo. È pensiero mio e basta!" Ancora una volta mi guardò in faccia, severo e indispettito. Poi batté forte sul tavolaccio il piede infilato nello zoccolo e il ragazzo della pianola cominciò a suonare. Suonava girando la manovella di un pianoforte a rullo - uno come quei tanti che tirati a braccio circolavano per le strade e i vicoli di Palermo - completamente stonato e più vecchio del cucco. "Suona Lamento". Urlò don Angelo, afferrando per il manico Orlando, scuotendolo tutto come se tremasse di febbre, di rabbia e di dolore e scaraventandolo sulla scena accompagnato da un ululato che non si capiva se era di cagna in calore o di cristiano impazzito. "Angelica! Angelica mia!" Declamò con teatrale intonazione. Era l'inizio della puntata di quella sera. Una specie di telenovella. Una lunga storia che raccontava le gesta dei Paladini di Francia. Don Angelo, da quel momento apparteneva solo ai suoi pupi. Ad essi, adattandola ai vari personaggi, prestava la sua voce: grave, acuta, in falsetto. Oltre a quella, solenne e regale, per la quale si sentiva particolarmente attratto. Don Angelo Santonastaso, faceva il suo mestiere di puparo, per necessità e per passione. Se vogliamo, per dirla chiaro, più per necessità che per passione. Perché la sua passione, quella vera, era interamente rivolta ad altri interessi. Si capisce che di vocazioni artistiche e creative ne riconosceva parecchie e prima fra tutte, quella per la pittura. Si sentiva, dice, particolarmente attratto dal colore. Affascinato dalla leggerezza delle sue evocazioni, che in un certo senso, amava paragonare a quelle, assai più alte e suggestive, che sapevano suscitargli le donne. Una qualche cosa, dice, che non sapeva spiegare. Come lo spirito di una cipolla, dice, che ti fa piangere senza sapere perché. Insomma, le donne se le sentiva nel sangue. Gli facevano sangue. Un flusso vitale di sangue che arricchivano, dice, la sua stessa persona. E tuttavia, don Angelo, bello non era. Però - come si suol dire, nei casi in cui non si può dire, delle scarse grazie di una donna - di don Angelo, allo stesso modo, con lo stesso felice eufemismo, si poteva dire che era un "tipo". Rosso di capelli e con la bocca sempre mezza aperta, come se attendesse di esalare l'ultimo respiro, o di ingoiare una mosca, certo una bella impressione non dava. Ma alle donne, che delle grazie di un uomo hanno una concezione estetica tutta particolare, piaceva. E del fatto che piacesse, non era possibile dubitare, tenuto conto delle sue numerose e simultanee frequentazioni femminili. Fortunato ruolo di rubacuori che, don Angelo, molto dignitosamente onorava. Una felice condizione che gli conferiva il privilegio di beneficiare, oltre che dei piaceri della carne, anche delle gioie delle numerose paternità. Più di quanto è possibile e lecito desiderare se...Se non ci fosse una pesante contropartita da mettere in conto: il rischio, tutt'altro che raro, di trovarsi sempre nella condizione di cercare diciannove soldi per fare una lira. Che, in parole povere, significa, trovarsi spesso in uno stato di necessità. "Un qualcuno che a me ne viene. Un nobile cavaliere o un vil marrano". Don Angelo fece fare ad Orlando due passi. Uno indietro e 1'altro avanti, poi una giravolta, mentre il suo assistente introduceva rumorosamente sulla scena un grosso pupo, Una marionetta agghindata con un costume vagamente orientale, con una faccia brutta e barbuta coperta da un turbante. "Cane infedele di un cristiano! Inchinati al cospetto dell'Emiro Aliva Ben Calià. Fatti da parte e cedimi il passo, se non vuoi miseramente perire! "Don Angelo, per far parlare il gigante aveva modulato la sua voce in suono grave e cavernoso. Subito dopo, per dare voce ad Orlando, la rialzò di tono, ingentilendola come quella di un tenore: "Miserabile saraceno, in cotal guisa osi parlare al Conte Orlando, Paladino di Francia, di Re Carlo, del Papa e della Romana Chiesa?" Batté forte sul tavolaccio con lo zoccolo e si attendeva che il ragazzo della pianola suonasse, batté ancora più forte, facendo fare ad Orlando tutta una serie di sconclusionate giravolte e infine, urlò. "N'tamato, cornuto! Suona battaglia, pezzo di crasto! "Una disarmonica dissonanza di suoni, finalmente, si scatenò per sottolineare ed accompagnare la violenza del furibondo combattimento, che l'assordante fragore di ferraglie e di colpi di zoccolo battuti sull'impiantito del palcoscenico, rendevano per la felicità degli spettatori, terrificante. Si rimise la scarpa e a spettacolo ultimato, don Angelo, finalmente si degnò di dare una più precisa risposta a quella domanda che non gli avevo fatta e che non avevo bisogno di fargli: il telone di Roncisvalle. "Dipingeremo il telone della Rotta di Roncisvalle dopo che avrò fatto la serata in onore di Santa Rosalia. Rappresenterò la sua commovente storia. Anzi, approfitto dell'occasione per dirti che domani dovrai accompagnarmi a Brancaccio. Devo farmi prestare alcuni pupi e appunto, il telone della Storia della Santuzza, da don Pasquale Cinquemani che, proprio accanto alla statua di San Gaetano, nella piazza Conte Federico, ha il suo teatro dell'Opera dei Pupi". Un altro pretesto per i suoi soliti rinvii. Don Angelo era uno specialista per trovare plausibili scuse per i suoi rinvii e le sue posticipazioni senza tempo, o a tempo perso. Specialmente quando l'indeterminato procrastinare gli serviva a liberarlo da un qualche impegno monetario che difficilmente era in grado di onorare. Con la rappresentazione della storia di Santa Rosalia, don Angelo, si prese una delle sue più grandi soddisfazioni. Sia per quel successo di pubblico che si aspettava, sia per quella supplementare gratifica pecuniaria sulla quale molto contava. "L'ammalato piglia un brodo" si disse per consolarsi del suo stato di ammalato cronico. Sofferente di una strana e complessivamente piacevole patologia. Una patologia - tanto per dire - che, proprio per un eccesso di salute, lo rendeva maggiormente vulnerabile al fascino femminile. Con queste semplici riflessioni si sentì più leggero e meglio disposto a tirarsi appresso quella specie di carovana della quale era l'indiscusso servo e padrone. Un capo con obblighi solo morali. perché, a norma di legge, altri oneri don Angelo non aveva. Ma le scarpe a Totuccio bisognava comprargliele. Il cornutello se ne mangiava un paio al mese. Non stava mai fermo. Nemmeno a scuola, per quelle poche volte che ci andava. Pallone! Pallone e scarpe rotte. E c'era Catarinella che già mostrava i primi segni di femminilità. Ed era sua figlia! E Mariuccia che metteva i primi denti. E Matteo che soffriva di gastrite! Santa Rosalia, una mano gliela aveva dato. Un successo la rappresentazione della sua santa storia. Con la sparata finale dei giuochi di artificio, come quelli che si sparano per il Festino. Baldovino, cavaliere indomito e uomo d'onore. Promesso sposo. E il demonio cornuto, che la voleva insidiare sotto mentite spoglie! Vergine Santa! Santa e vergine..! Ed io? Va a finire che me la taglio! Così, don Angelo, qualche volta, senza scrupoli o inibizioni, si lasciava andare a piccoli sfoghi liberatori. Si era incapricciato di una delle più appariscenti bellezze del quartiere. "Con le tue cinque lire mi sono fatta una bella fottuta con la Sciacquata". Più che alle mie cinque lire d'argento, con l'effigie di Re Vittorio Emanuele, faticosamente risparmiate e definitivamente perdute, pensavo al telone di Roncisvalle! Al mio desiderio di dipingerlo con lui: per imparare ad usare i colori. Una bella cosa che non sarebbe stato più possibile fare, dato che non avremmo più potuto comprare "Ci troviamo bene con donna Nannina! Mi è entrata proprio nel sangue! Dice che suo marito è Chiaro. Vuol dire, insomma, che è come un uovo senza il suo tuorlo". Che don Damiano fosse Chiaro, era noto a tutto il quartiere. Fino a che punto, però, arrivasse il suo limite di chiarezza, erano assai pochi a saperlo. E tra questi, si capisce, non c'era la sua sposa, che perfettamente conosceva il grado di trasparenza del rosso d'uovo di suo marito. Donna Nannina era una gran bella donna. Una di quelle femmine cariche di sensualità e di libidine che attirano a prima vista. Forte di gambe, di fianchi e di petto, difficilmente poteva passare inosservata. Sciacquata, la chiamavano, non solo per l'impressione di pulito che dava, ma principalmente per la vellutata e pingue bianchezza delle sue carni. Buttana, vero e proprio non era. Però qualche scapolo di tanto in tanto, non disdegnava di farselo. Don Angelo Santonastaso, puparo più per necessità che per passione - anche se consapevole della sua scarsa vocazione di puparo - dell'Opera dei Pupi aveva profonda conoscenza. Del senso della dignità, dell'onore e dell'etica manichea, che questi principi reggeva aveva raccolto ed assimilato tutte le qualità ed i difetti. Senza che lo volesse, qualità e difetti dell'antica cavalleresca morale, che quotidianamente sciorinava nel suo teatrino, erano diventati i suoi stessi modelli di comportamento. Non trovava, perciò niente di sconveniente e di immorale nelle sue multiple e simultanee frequentazioni femminili. E proprio in virtù di questa sua personale e assai discutibile interpretazione dell'etica cavalleresca, non ammetteva e non sopportava che la Sciacquata potesse eluderla, e che, perciò, potesse permettersi di sgarrare. La Sciacquata, invece, che di questi codici completamente sconosceva l'esistenza, amava liberamente assecondare la sua natura e le sue vocazioni. Da qui l'insanabile dissidio che non si limita va a sole affermazioni di principio; ma che, anzi, sul piano pratico scatenava violente scenate e continui litigi. Gridate e zuffe con modi e parole pesanti, che spesso coinvolgevano lo stesso don Damiano che sebbene già educato ad ignorare gli scapoletti della moglie, non poteva esimersi dall'intervenire, con le conseguenze che si possono immaginare. Un giuoco delle parti. Un giuoco con troppe parti, nel quale nessuno sapeva esattamente qual'era la sua. Una Pochade della migliore tradizione della Commedie Français Una Pochade tragicomica nella quale , don Angelo, aveva perso la dignità e la testa. Stava imbronciato e cupo. Roso da una feroce gelosia che se lo mangiava di dentro e di fuori. Le sue quattro, donne si capisce, quelle della sua tribù, dopo aver provato diversi espedienti, ciascuna a suo modo e in rapporto alle proprie possibilità per portarlo alla ragione e sulla retta via, finirono, alla lunga con lo stancarsi e si limitarono solo a compatirlo. La moglie - la sola, che legalmente avesse titolo per dirsi tale - allampanata, isterica e segaligna, si concesse il privilegio di scagliare anatemi che, se non era per la espressione folle degli occhi sbarrati, potevano essere contrabbandati per amorevoli e pie invocazioni: "La mano di Dio! La santa mano di Dio, ci deve pensare! All'Opera dei Pupi, tutte le sere, Don Angelo, gonfio di bile e di livore, nel corso della rappresentazione trovava sempre una qualunque occasione per infilare una sfilza di contumelie per la bella Angelica. La identificava, nella sua mente stravolta, alla Sciacquata. La buttaniava di malamaniera solo per concedersi una soddisfazione, che sebbene assai misera, gli procurava qualche attimo di pace. Ma nei momenti di follia, che nella finzione scenica spartiva e mutuava col prode Orlando, faceva urlare al valoroso Paladino, tutta la sua rabbia e disperazione, roteandolo a destra e a manca e sbattacchiandolo come se volesse romperlo tra le quinte e le scene del piccolo palcoscenico. Allo stesso modo forse, avrebbe voluto fare con se stesso. Così, con la rabbia nel cuore, impegnava il Campione della Cristianità, quello che era ormai diventato il suo alter ego, in furibondi combattimenti. Era, ancora una volta, il pretesto per battere forte e a ritmo sostenuto il piede con lo zoccolo, sul tavolaccio del palcoscenico e per scatenare quel chiasso assordante che lo esaltava. Quella infernale sarabanda che accompagnata dalla veloce scansione dei suoni della vecchia pianola stonata, gli davano la sensazione di essere l'Eroe di Roncisvalle, Un povero artificio che in qualche modo riusciva a stordirlo e a placarlo. E fu quando don Angelo raggiunse il livello massimo di stravaganze e di follia che, finalmente, si manifestò la "mano di Dio" La mano di Dio! O quella di qualcuno - secondo il brigadiere Carcone, che voleva vederci chiaro -che all'Onnipotente si era indegnamente sostituito. Quale che fosse la spiegazione, don Angelo era stato rinvenuto tramortito e sanguinante , per terra, in una cantonata di vicolo Massi nelle vicinanze di casa sua, all'angolo della Albergheria. All'Ospedale San Saverio, stava don Angelo, coricato in uno di quei letti ortopedici fatti apposta per stirare ed aggiustare le ossa rotte. Aveva la testa completamente fasciata ed il piede destro - quello che furiosamente batteva sul tavolaccio del palcoscenico - ingessato ed appeso ad un'asta di metallo che lo teneva immobile e sollevato. Pareva ridotto piuttosto male. Come uno dei suoi pupi dopo una terribile battaglia. Non si sapeva chi l'avesse conciato in quel modo. Non si capiva nemmeno quali, tra le tante ipotesi che si facevano, poteva essere quella giusta. Una mala caduta per ubriachezza mentre tentava di rientrare a casa sua, in vicolo Massi all'Albergheria. O un colpo in testa ben assestato in un momento d'ira. O, una delle tante ipotesi da non trascurare, un deciso intervento della "Mano santa di Dio" che l'aveva spinto e scaraventato giù per le scale. Don Angelo sonnecchiava con la bocca, come sempre mezza-aperta che, però, dato che gli avevano infilato nel naso due tubicini di plastica, non faceva nessuna impressione, Gli stava accanto una minuscola e graziosa ragazzina che lo guardava con tenerezza e non smetteva di asciugargli le labbra. Era poco più che una bambina. Con gli occhi piccoli e azzurri, che strizzava continuamente, e i capelli crespi e rossi , poteva facilmente essere scambiata per una di quelle figure di pupi che comparivano qualche volta sul palcoscenico dell'Opera dei Pupi. Don Angelo pareva che mi avesse riconosciuto. Fece capire che voleva che mi avvicinassi. "La Rotta di Roncisvalle..! La Rotta di Roncisvalle, rappresenta la fine della Storia. Non solo quella di Orlando e dei Paladini di Francia. Tutta la Storia... La fine della Storia...!".