giovedì 7 marzo 2013

STORIE DI UOMINI GIUSTI



La Dott.sa Ruzena Ruzickova è delegata da Sua Eccellenza il Console della Repubblica Ceca, Dottor Giorgio F. Aletti, accompagnata dal… , alla cerimonia in oggetto. Da  Milano.honorary.mzv.cz  a  gs.ufficiocerimoniale.comune.milano.it
Ivan Havel al centro, a destra Dagmar Havlova a sinestra R.R.
Ricordo quando giocavamo a pallone nell’area della discarica dei materiali di risulta estratti dalla costruenda metro di Milano. Il luogo fu subito battezzato Montestella , io lo chiamavo la Montagnola di Milano. Ci si andava con la bici o con il 4 che poi proseguiva per Greco. Ieri sotto una pioggia torrenziale che ci fece rallentare, sicuri che vi avremmo trovato nessuno, ci avviamo verso una cerimonia solenne. Più o meno storica a seconda del tuo stato d’animo. Accompagnavo il facente funzione del Console. Ero indeciso se andare. Da giorni la TV mandava in onda film sull’olocausto ed io ero molto provato perché non si può rimanere indifferenti vedendo questi film. Mi rifiuto di credere che miei simili fossero capaci di arrivare a tanto. Piango come quando vedo un film sulla persecuzione dei primi cristiani , su qualsiasi martire vittima immolata alla stupidità umana. Di solito ciascuno piange i suoi martiri e così ciascuno ha i suoi martiri più martiri degli altri. Questa volta mi sembrava diverso. Per prima cosa rappresentare in questa circostanza S.E.  Giorgio F. Aletti ci faceva sentire orgogliosi e ci riportava al tempo che andavamo sotto le finestre dell’Associazione degli Scrittori Cecoslovacchi di Praga dove Vaclav Havel , Jiri Hajek e Jan Patocka compilavano  Charta 77 un documento che ricorda la dichiarazione dei diritti dell’uomo. Divenne una tappa obbligata . Non incontrammo Havel , ma Milan Kundera ,quando cercavamo qualche scrittore su cui qualcuno di noi preparava la tesi. Havel allora era pressocchè sconosciuto ai molti.
Giardino dei Giusti:cippo e albero di Vazlav Havel
Ma cosa facevamo ieri a Montestella ? Eravamo nel Giardino dei Giusti. Si piantavano 4 nuovi alberi di larice. Uno per Dimitar Peshev, bulgaro che salva 48.000 ebrei di Tracia e Macedonia dalla deportazione; uno per Vaclav Havel, firmatario Charta 77 contribuendo alla caduta del regime e occupazione sovietica in Cecoslovacchia guidando la rivoluzione di velluto ; uno per Fridtjof Nansen , inventa il passaporto Nansen permettendo a milioni di profughi e apolidi di avere un documento (riconosciuto da 56 nazioni) a tutti i profughi e apolidi della seconda guerra mondiale, uno per Samir Kassir , palestinese sogna un Libano libero e multietnico viene ucciso per le sue idee ora è nel Giardino dei Giusti a Montestella a Milano.
Il sindaco Pisapia non ha trasformato la cerimonia in comizio come usano fare certi politici cafoni  e in mezzo a 500 studenti delle superiori ha sottolineato i valori che accomunano tante personalità cosi diverse. Ambasciatori, consoli, diplomatici, politici, autorità , docenti  e soprattutto i parenti dei nuovi quattro ospiti: i nipoti di Peshev, commossi impeccabili eleganti, il fratello e la cognata di Havel  Ivan e Dagmar che ha ricordato il fratello a cui sono stati consegnati gli omaggi del console , l’ambasciatore di Norvegia in perfetto italiano ha spiegato il meglio del suo connazionale, infine l’ancora innamorata vedova Giselle Kassir. 
La sera nella sala degli specchi e delle cariatidi del palazzo reale dove almeno dieci grandi finestre ti permettevano di vedere (a pochissimi metri) il maestoso  duomo di Milano  mentre oltre 300 invitati familiarizzavano, ottimo concerto di musica dove Gabriele Nissin ha brevemente presentato e ringraziato lasciandoci nelle mani di tre artisti che senza fronzoli si soni esibiti facendo a meno di presentazioni e politici . Agli ospiti , infine , è stata permessa  la visita della mostra delle opere di  Modigliani, Soutine e  gli artisti maledetti.  La stessa cerimonia nello stesso momento avveniva a Bruxelles, Varsavia, Praga, Sarajevo e San Pietroburgo .

martedì 5 marzo 2013

SOLO OBBEDIRE



Toccante cerimonia quella del “ringraziamento”. Mi aggiravo fra la pochissima gente presente prima dell’inizio della cerimonia. C’erano tutti “i nostri” assessori e persone apparentate. C’erano un paio di coppie venute da fuori che passeggiavano solitari che sembravano dirsi cosa ci siamo venuti a fare… possibile che nessuno sia preposto all’accoglienza ? Ma però c'erano 5 vigili in servizio e 3 carabinieri. Mi sono avvicinato ho salutato e l’uomo con la barba , accompagnato da una signora alta dal fascino inalterato, mi ha sorriso contento di essere stato riconosciuto. Mai visto prima. Poi arriva il “machiavelli” , il caposquadra de noantri il dottor Jekil o il mister Hide a seconda…Cracolici. Girano voci che per motivi strettamente familiari la cosa sia rimandata. Mi informo meglio , ma le parole giuste le dirà più avanti il nostro, che appena arrivato va subito a salutare la coppia predetta che accantonata sotto un inutile gazebo era sparita dalla vista. Rapido giro di saluti abbracci e baci. Le solite sue pie donne con occhi rossi e faccia imbellettata , i soliti assessori sordo-muti o balbuzienti e “quattro dico quattro vecchi comunisti della prima ora “. Non si è visto l’autore dell’appello ai marinesi coglioni, e ai sei “compagni con distinguo, ma sempre compagni”. Ho curiosato in cerca del “tacchino “ (giornata del ringraziamento)  che avevo visto in macelleria da Tuzzolino e Ingui... Enorme di dimensioni mai viste prima e domandai se era questa la enorme torta  promessa. Serata fredda che nemmeno la fine della messa è riuscita a riempirne la piazza. Mi sono commosso quando il nostro ha iniziato elogiando e ringraziando uno per uno, citando nome e cognome , titolo carica coloro che lo avevano aiutato e sostenuto. Gli assessori, l’apparato di partito i sostenitori e cosi via. Questi anche loro commossi a vedersi citati applaudivano continuamente. Ormai ha cambiato linguaggio. “Ora dobbiamo pensare a salvare la nazione… abbiamo sistemato tutto qui e siamo pronti ad occuparci dell’Italia. Già da domani mattina a Roma…”. Tutte le volte che scrivo una recensione di questo tipo il giorno dopo mi trovo  la vendetta (una diffida alla Regione , un intervento sul capo dei vigili, un interrogazione se pago le tasse, una minaccia fisica tramite un amico fraterno, una telefonata trasversale ).  Avevo scritto una nuova lettera al nostro Consulente ecologico chiedendo come mai non fa più relazioni sullo stato delle cose (l’ultima ci diceva che eravamo al 60-70 per cento) ora non hanno il coraggio di dire che l’indifferenziata è da almeno sei mesi al 20 per cento cioe allo sfascio “non per colpa loro…”ma di chi allora ? Lettera non pubblicata (lascia stare non ti cercare guai...). Per non parlare degli strani figuri che girano fra i rifiuti senza autorizzazione, o dello sceriffo messo a guardia dell’autoparco o della quindicesima nomina  del capo servizio…  Se oggi leggete un comunicato della segreteria del PD ritroverete il vecchio stile del nostro perché lui ha cambiato linguaggio…si occupa solo di noi italiani e non più di noi marinesi. Peccato non solo il tacchino non si è visto ma nemmeno la torta  dieci volte più grande di quella del parroco…

sabato 2 marzo 2013

S. BENEDETTO IL MORO E L’EREMO DI S.MARIA DELLA DAYNA DI SCANZANO



Di Antonino Trentacosti
Il Romitorio “S. Maria della Dayna di Scanzano”, distante 3 km a sud-ovest dalla Nuova Marineo, prima di essere eremo era una delle tante popolate masseria di antiche origini della zona. Ospitò contadini provenienti dai dintorni, gente che in precedenza aveva abbandonato la città di Mirnaw (sulla Montagnola) per dedicarsi all’agricoltura e albanesi arrivati in Sicilia alla fine del Quattrocento. Riguardo a questa masseria Baldassare Zamparrone, che l’aveva visitata nel 1619 durante uno dei suoi viaggi nell’interno della Sicilia, venendo da Corleone per Palermo riporta: “Passando da Busammara (indicando la Rocca Busambra) dove sopra v’era un villaggio di Saracini, detto Calatabusamar, venimmo nella terra di Marineo, fabbricata da Francesco Bologna ... et innanti si arriva a detta terra si trova la Chiesa della Dayna. L’origine della quale fu che già sono anni 54 che sarà stato l’anno 1570 in Marineo vennero tre uomini romiti di santa vita nominato uno Fra Tommaso di Termini, l’altro Frate Domenico da Palermo e l’altro Frate Antonino da Talataxibetta. Questo frà Tommaso di Termini prima fu bandito, et essendo alla Portella di Sant’Anna, passando due frati della Mancusa, li dissi, se Dio lo poteva perdonari, et li Patri li dissiro di si, e così aggiuntosi con detto frà Domenico e Frate Antonio vennero ad abitare in detto loco, seu Masseria detta la Dayna che allora era bosco e chiamato così per causa di una certa moneta d’oro si ritrovò con esserci scolpita una Dayna. Incominzarono prima a fare capanne e dopo una Chiesa... A quanto riporta lo Zamparrone, a fondare il Romitorio di S. Maria della Dayna di Scanzano, furono tre romiti francescani provenienti dal Romitorio della Mancusa che si trovava tra Partinico e Carini, lo stesso romitorio dove dimorò e compì dei miracoli San Benedetto il Moro, il Santo che poi dimorerà, per 19 mesi, nel nuovo romitorio di Scanzano.
Consultabile in redazione
S. BENEDETTO IL MORO, è un santo siciliano che trascorse la sua vita da eremita itinerante sostando in vari eremi e, dopo il 1550, in vari conventi e monasteri dell’isola. Non si sa molto di quello che ha fatto durante i suoi spostamenti e di quello che ha fatto durante i suoi soggiorni nei luoghi dove si è fermato. Inoltre, gli stessi dati forniti dagli storici non sempre sono convincenti perché presentano delle discordanze. Di S. Benedetto il Moro sappiamo che è nato a San Fratello, comune del messinese a 14 chilometri da S. Agata di Militello. A causa della mancanza dei registri dell’anagrafe (perché perduti) non si sa il giorno della sua nascita, si sa che nel 1524 nella Chiesa Madre di San Fratello, con il nome di Benedetto, fu battezzato il figlio della coppia Diana-Cristoforo entrambi di colore e di religione cristiana. A fare da padrino fu un benestante e possidente di nome Manasseri Vincenzo di cui Cristofono era un dipendente con il compito di occuparsi del suo bestiame. In seguito, per il colore della pelle, il fanciullo fu denominato Benedetto il Moro. Gli antenati di Cristoforo e Diana erano di origine africana deportati nella zona di Messina come schiavi dall’Etiopia, nel Cinquecento avevano già avuto la libertà. Benedetto passò la sua fanciullezza tra gli insegnamenti religiosi dei genitori, le fatiche dei lavori agricoli e quelli dell’allevamento del bestiame di Manasseri. A 21 anni conobbe l’eremita francescano Frate Girolamo Lanza che seguiva la regola di S. Francesco e che, nell’Eremo francescano di Santa Domenica alla Platanella sito nel comune di S. Marco d’Alunzio a 30 chilometri da San Fratello, aveva appena cominciato a riunire un gruppo di romiti. Il giovane Benedetto entrò in quella comunità come novizio e come gli altri romiti si costruì la sua singola cella isolata che era una rozza casupola di qualche metro quadro. Seguì l’anno di noviziato e cominciò a provare le consuete penitenze dei romiti, il digiuno e i flagelli. Non si sa per quanto tempo la comunità rimase nell’Eremo di Santa Domenica.
 Per la questua, i romiti periodicamente cambiavano zona di residenza e quindi, con tutta la comunità il superiore Girolamo Lanza dal lato settentrionale della Sicilia si spostò lungo la costa meridionale e dopo pochi anni passò dal lato opposto fermandosi in provincia di Palermo nel Romitorio della Mancusa che si trovava tra Partitico e Carini. Nell’Eremo della Mancusa, Frate Benedetto per i suoi digiuni e per le sue penitenze non si costruì la solita cella isolata come fecero gli altri romiti, ma preferì rifugiarsi in una grotta che si trovava in una zona impestata dai lupi che però non attaccarono mai il romito e questo incuriosì la gente del luogo vedendo, in Frate Benedetto, un uomo di santità e cominciarono a frequentare la grotta per chiedere guarigioni per i loro ammalati, fra questi, un caso suscitò più clamore. Un giorno gli si presentò una donna di Carini che aveva un cancro alla mammella e gli chiese di fare un segno di croce sul male che da tempo aveva curato senza ottenere risultati positivi, con quel segno la donna fu guarita. Intanto, a Palermo erano gli anni in cui si parlava di ricerca delle spoglie di S. Rosalia sul Monte Pellegrino. La comunità di Frate Girolamo Lanza, dal Romitorio della Mancusa si spostò sulla spianata del monte nelle vicinanze della grotta dove. In seguito e alla distanza esatta di cento anni dalla nascita di S. Benedetto il Moro, il 25 luglio del 1624, furono ritrovate le spoglie della “Santuzza di Palermo”. Per la dimora sulla spianata del monte, ogni romito si costruì la propria cella ma, tra quelle casupole mancava la tanto desiderata chiesetta che fu fatta costruire dall’allora Vicerè della Sicilia Duca di Mediaceli. Morto Frate Girolamo Lanza, il romito eletto dai frati per continuare a guidare la comunità fu Frate Benedetto che, quando divenne superiore dei romiti di Monte Pellegrino, era in piena gioventù e aveva superato da poco il ventesimo anno di età. Poco dopo la nomina entrò nella comunità un giovane calabrese di nome Gargano che fu chiamato Frate Francesco. Questo fu il giovane romito che il superiore Frate Benedetto si scelse per trascorrere 19 mesi nel romitorio di S. Maria della Dayna di Scanzano fondato dai tre frati della Mancusa. Frati che probabilmente il Santo conosceva già per avere dimorato nello stesso romitorio.  Quando Frate Benedetto ritornò sul Monte Pellegrino era già stato eletto Papa Giulio III che, nel 1550, appena nominato, diede disposizione ai romiti francescani di uscire dalle separate e singole celle e vivere in comunità nei conventi, per cui la comunità di Monte Pellegrino si mise all’opera per costruire il convento accanto alla chiesetta. In convento vissero fino al 1559 quando fu eletto Papa Pio IV che rese più sopportabile la dura vita dei romiti francescani sgravandoli di alcune penitenze e dispose che rientrassero in un ordine religioso approvato chiudendo definitivamente, dopo due anni, la compagnia degli eremiti francescani fondata da Fra Girolamo Lanza.
 Di preciso non sappiamo in quali anni e in quale periodo della sua vita rientrano i 19 mesi che S. Benedetto passò nel Romitorio di S. Maria della Dayna di Scanzano. Gli storici ritengono che si tratti degli anni in cui era superiore della comunità dei romiti francescani di Monte Pellegrino e questi, a quanto risulta, furono gli anni subito dopo la vestizione del giovane calabrese Frate Francesco (che lo accompagnò) e prima delle disposizioni di Papa Giulio III del 1550. In questo periodo, nella masseria di Scanzano, i romiti francescani (da poco arrivati dal Romitorio della Mancusa) vivevano ancora nelle singole celle isolate e avevano costruito solo la chiesa perché la modifica della masseria per adattarla a convento sarà fatta dopo il 1550 in seguito alle disposizioni di Papa Giulio III.  Se nella comunità dei romiti francescani di Fra Girolamo Lanza S. Benedetto entrò a 21 anni, i 19 mesi di soggiorno a Scanzano in compagnia del giovane frate calabrese (da poco entrato nella comunità), dovrebbero coincidere con i due anni anteriori al 1550 (quindi 1548-’49), quando il Santo aveva circa 25 anni.  I dati del 1619 riportati dal notaio Baldassare Zamparrone, come lui stesso dichiara, sono molto approssimativi perchè, secondo quanto scrive l’anno in cui i tre frati francescani arrivarono a Scanzano e “…incomenzaro prima a fare capanne e dopo a fare una chiesa…” (capanne che sarebbero le singole celle isolate), sarebbe il 1565 (1619-54=1565), 15 anni dopo le disposizioni di Papa Giulio III del 1550 e 6 dopo quelle di Papa Pio IV del 1559 quando S. Benedetto entra come novizio nel Convento di S. Maria di Gesù di Palermo.  Infatti, è nel 1559 che, S. Benedetto, con le disposizioni di Papa Pio IV ha dovuto lasciare l’ordine dei romiti francescani e scegliere quello approvato, la sua scelta cadde nell’Ordine dei Frati Minori Riformati vestendo l’abito dei novizi nel convento suddetto. Noviziato che però non passò nello stesso convento perché dopo pochi giorni si trasferì nel Convento di S. Anna del Comune di Giuliana dove rimase per tre anni, periodo che per il Santo fu soprattutto di riflessione e di una profonda meditazione.  Passati i tre anni, nel viaggio di ritorno per rientrare nel Convento di S. Maria di Gesù di Palermo, San Benedetto compie uno dei suoi miracoli. Era in compagnia del chierico Frate Antonio di Corleone il quale, arrivati nella contrada Santa Agata, prima della discesa per Piana degli Albanesi, stanco, debole e affamato, si rifiutò di proseguire. S. Benedetto, mentre cercava di rianimarlo ad un tratto si presentò un giovane con un pane ancora caldo che fu sufficiente per sfamare entrambi e portare il rimanente in convento. Di S. Benedetto si ricordano altri due miracoli consimili successi sempre durante i suoi viaggi. Uno è quello di quando si trovava in compagnia con tre frati che si lamentavano per la lunga strada che avevano percorso e per la stanchezza e la fame accumulati. Ad un tratto li sopraggiunse una persona che senza averglielo chiesto offre spontaneamente ai frati un pane e un fiasco di vino. Dopo di avere mangiato e bevuto a sazietà, i frati ridanno il pane intero e il fiasco pieno di vino così come li avevano ricevuti. L’altro miracolo successe durante uno dei suoi viaggi da Palermo ad Agrigento in compagnia con altri tre frati. Ad un certo punto incontrano un palermitano di nome Vito Polizzi che percorreva a cavallo il viaggio all’inverso. Visto i frati stanchi e a sua avviso anche affamati, offre un sacchetto di biscotti e un fiasco di vino.
 I frati, dopo di avere mangiato quasi tutti i biscotti e bevuto quasi tutto il vino, ridanno al Polizzi il sacchetto e il fiasco con quello che era rimasto. Arrivato a Palermo e sceso da cavallo, il Signor Vito ha voluto approfittare dei biscotti e del vino che erano rimasti ma, con grande sorpresa si accorge che, sia l’uno che l’altro esano esattamente come li aveva offerte ai frati. Questo miracolo, Vito Polizzi lo ha narrato sotto giuramento durante il processo iniziato nel 1595 a Palermo sulle virtù e i miracoli del Santo. Processo che, dopo un susseguirsi di tappe si concluse nel 1807 quando Pio VII lo proclama santo. Di S. Benedetto si ricordano anche delle profezie. Un giorno, nel Convento di S. Maria di Gesù di Palermo, gli si presentò un mercante catalano di nome Antonio Vignes preoccupato che da 40 giorni non aveva notizie di una sua nave carica di tessuti e altra merce proveniente da Barcellona, S. Benedetto gli rispose che la nave sarebbe arrivata in porto sana e salva. Dopo alcuni giorni, il mercante gli si presentò di nuovo dicendo che la nave non era ancora arrivata e gli chiedeva il motivo di tale ritardo, il Santo gli rispose che per i vari pericoli che si erano presentati, la nave si era fermata per 15 giorni in un porto della Sardegna. Numerosi sono i miracoli di S. Benedetto che si ricordano: miracoli di guarigioni di ammalati gravi e per riportare in vita gente appena deceduta; fatti in abitazioni private, negli eremi e nei conventi dove ha vissuto. Altri miracoli che si ricordano sono quelli avvenuti durante i suoi spostamenti perché buona parte della sua vita la passò camminando a piedi nudi. Viaggi che duravano anche diversi giorni soprattutto quando si spostava da una provincia all’altra della Sicilia. Numerosi sono anche i miracoli che ha fatto dopo la sua morte e diversi nel suo paese natio. Nel Convento di S. Maria di Gesù di Palermo, S. Benedetto, che rimase analfabeta, fu maestro dei novizi e dei chierici, nel 1578 fu superiore del convento per tre anni e fu anche a servizio in cucina. Fu all’inizio del 1589 che cominciò a dare i primi segni di interruzione della sua vita terrena ammalandosi di febbre nel mese di febbraio. S. Benedetto, per le sue doti particolari, oltre ai frati, aveva tanti altri devoti e ammiratori anche fuori del convento. Uno dei primi a farle visita fu Gian Domenico Rubini, un ricco mercante di Palermo che appena lo vide si accorse subito della sua sofferenza e anche del suo grave stato di salute ma, il Santo lo riprese subito dicendo: “Per questa volta piace al Signore che io scampi di questa infermità, all’altra partirò da questa vita e sarà presto perché ho già finito il mio tempo” e cosi fu. La febbre gli ritornò dopo due mesi, il 4 aprile e il suo stato di salute si aggravava a vista d’occhio, ad un certo punto, frate Guglielmo, vedendolo grave si preparò ad accendere le candele benedette ma S. Benedetto gli disse: “figlio, non è ancora venuta l’ora, quando sarà giunta, io la dirò”. Fu poco dopo che fece cenno al frate di accendere le candele, poggiò le braccia a forma di croce sul petto, si raccomandò l’anima e spirò alle ore XVI del 4 aprile del 1589 all’età di 65 anni. Fu sepolto nella Chiesa di S. Maria di Gesù dello stesso convento dove è morto. Tuttora il corpo si conserva incorrotto. S. Benedetto il Moro, nella sua vita fu un santo che cercò di imitare al massimo S. Francesco scegliendo l’assoluta umiltà e povertà. Infatti, tranne nei momenti in cui gli fu ordinato dai suoi superiori, vestì una tonaca logora e rattoppata fatta di lana pesante e grezza che i siciliani del Cinquecento la chiamavano “Arboxo”. Da romito andò sempre a piedi nudi anche in pieno inverno e sulla neve. La cella dove viveva, la chiamava il mio palazzo. Per letto aveva una schiavina (usata anche nel medioevo) distesa al suolo, era un mantello grossolano con maniche e cappuccio. L’arredamento della sua cella, oltre alla schiavina era composto da alcune immagini di santi e da una croce segnata con il carbone su una delle pareti. Il culto a S. Benedetto il Moro si propagò in tutta Europa e anche nell’America del Sud dove è protettore delle popolazioni negre. A Palermo, è divenuto il “Santo Scavuzzo”, il Senato, nel 1713, lo inserì tra i santi protettori della città. Fu beatificato nel 1743 da Benedetto XIV e Pio VII lo canonizzò il 24 maggio del 1807.