mercoledì 22 novembre 2017

CARAVAGGIO 7



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  E’ morto Micelangelo da Caravaggio, pittore celebre”.
           Lo scritto del Ferrini iniziava citando il parroco Jacopo de Ventura, il primo che, conformemente alle prescrizioni del Concilio di Trento ( 1545-1563), iniziò a tenere il libro delle nascite, dei matrimoni e delle morti. L’interesse per questo prelato derivava dal fatto che egli guidava la parrocchia di Porto Ercole nell’anno in cui sopraggiunse e morì il Caravaggio. Il Ferrini, che aveva avuto accesso al libro dei morti, aveva riportato puntigliosamente e ordinatamente tutti i decessi avvenuti nel 1609 e nel 1610, ma del pittore non vi era nessuna traccia. Lo stesso estensore dell’opera si poneva alcune capitali domande  senza  risposta: come era possibile che Jacopo de Ventura, sacerdote che trascriveva le più piccole minuzie, non avesse riportato la morte di un personaggio conosciuto come il Caravaggio? Eppure il prete della chiesa di S. Erasmo, la parrocchiale del paese, aveva riportato la morte di un alfiere di nome Montero, avvenuta verso la fine del luglio del 1610. In tale periodo il prelato de Ventura si trovava a Roma a servizio presso un Cardinale e suo sostituto era un certo prete Guglielmo. Nell’ambiente romano, nei mesi successivi alla morte del Merisi, tutti o quasi tutti sapevano della sua fine avvenuta nella località marina. Data la notorietà del pittore negli ambienti cardinalizi e vaticani, era impossibile che il De Ventura, che in quel periodo si trovava a Roma, non venisse a conoscenza di questa morte, se non altro perché era accaduta nel territorio dove svolgeva la sua funzione di parroco. E se lo sapeva, cosa che difficilmente si può dubitare, come mai, quando verso la fine di ottobre dello stesso anno il de Ventura ritorna nella sua parrocchia e trascrive la morte del Montero che probabilmente gli viene riferita da persone del paese, non riporta quella del Caravaggio?  Questi interrogativi che sorgevano da scontate constatazioni e altrettanto evidenti considerazioni di buon senso e di consequenzialità logica, non trovavano soddisfazione. Dovevo ringraziare le notizie che il Ferrini, questo appassionato storico locale, aveva riportato, se nella mia mente cominciava a delinearsi una calda chiarezza. Decisi di rintracciare lo studioso locale, cosa che feci facilmente, e fissai un incontro nel bar e nella piazza dove precedentemente avevo conosciuto Giovanna Anastasia. Ci vedemmo nel giro di pochi giorni. L’uomo di media statura, con sguardo affabile e dolce, mi accolse con una delicata riservatezza. Nelle sue movenze e nei suoi gesti si riverberavano i tanti anni di navigazione nella marina mercantile. Vi era una ondeggiante armonia fra i suoi diversi linguaggi, quello verbale e quello corporeo: educato ai lunghi silenzi marini, fu conciso e circospetto. 
          
La differenza con l’archeologa si rivelò abissale, lei un fiume di parole senza soluzione di continuità, lui le pesava e le tratteneva come se fossero preziose e rare perle. Alle molte domande che gli feci le risposte furono poche, capii subito che avevo di fronte una persona che non si apriva al primo venuto. Il Ferrini apparteneva a quella tipologia di persone che, senza un saldo rapporto di fiducia e di stima per il suo interlocutore, seguiva la strada del ritegno e del silenzio. Dentro di me sentivo che avevo di fronte una persona che aveva compiuto un serio e approfondito studio sulla storia del suo paese e in particolare sulla venuta e morte del pittore lombardo. Avvertivo che l’uomo sapeva molte cose ma nel nostro primo incontro non voleva andare oltre a quello che avevo già letto nel libro da lui composto. Ci salutammo con l’intento di mantenere dei telefonici contatti e, in seguito, di rincontrarci. Prima di lasciare Porto Ercole decisi di visitare i luoghi che, secondo le ipotesi storiche più accreditate, hanno visto la presenza del Caravaggio. Me ne andai sulla spiaggia della Feniglia, una lunga, morbida, materna distesa di sabbia spettinata da un vento birichino. Un sole crepuscolare dispiegava un caldo e sensuale colore rossastro che, come un leggero e diafano velo, dava un tocco di grazia ai granelli di sabbia, alla risacca delle inquiete onde. Camminando sulla sfarinante spiaggia, ero attraversato da una ridda di saltellanti emozioni sboccianti da un ordito di immagini e parole frutto della lettura dei documenti degli ultimi giorni di vita del pittore della Canestra. Quella immensa distesa di granelli di sabbia assumeva magicamente un senso e una valenza sprigionata dalla mia immedesimazione con la raffigurazione del pittore che cercava disperatamente la felluca con il prezioso carico dei suoi tre quadri. La potenza della fantasia, la interiore forza dell’identificazione, componeva e scomponeva il ricco materiale che portavo nella memoria creando una momentanea sospensione della razionale distinzione fra il passato e il presente. Il Caravaggio, con la sua disperazione, la stanchezza e la fisica debilitazione, sembrava lì in carne ed ossa, e io vicino a lui. Si trattava di un processo psicologico che assume forma e sostanza ogni qual volta ci troviamo nei luoghi frequentati da  persone da noi amate, ammirate o mitizzate. L’esperienza che stavo vivendo, con gradi e intensità diverse, con variegati livelli di consapevolezza, rientrava in quella tipologia di accadimenti che può essere etichettato come “evento mistico-identificatorio”. Tale dimensione esistenziale si sprigiona solo visitando luoghi sacri o profani legati a personaggi che sono profondamente penetrati nel nostro cuore e nella nostra mente: per me il Caravaggio era uno di questi.

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