CARAVAGGIO 12
La scoperta del falso documento sul luogo e
la data di morte del Caravaggio
La ricerca storico-documentale aveva
raggiunto un obiettivo soddisfacente. Senza la pretesa di una indagine
esauriente e di tipo specialistico si era riusciti a rivedere la vita e la
personalità del Caravaggio liberandola da un gioco di specchi deformanti
impregnati di moralismo e inutili pre-giudizi. Un tardo pomeriggio mi trovavo
nel mio ufficio al Ministero del Turismo, il telefono squillò e si materializzò
la voce del Ferrini. Il tono era concitato, l’infaticabile ricercatore mi
informava della scoperta di un documento avvenuta qualche giorno prima negli
archivi diocesani di Pitigliano, uno splendido paesino medievale ubicato nella
provincia di Siena. La parrocchia di Porto Ercole, come molte altre limitrofe
rientravano nella ecclesiale giurisdizione di Pitigliano, dove vigeva la sede
vescovile. Il Ferrini mi invitava ad un ulteriore incontro nella solita piazza
Roma di Porto Ercole e mi informava che lui e Gualtiero della Monaca, altro
storico locale suo amico, oltre a questo atto mi avrebbe consegnato una carta
topografica spagnola, dei primi decenni del seicento, riportante la località
marina e altri importanti reperti storici che avrebbero proiettato una nuova
luce su quel famoso foglietto ritrovato nel 2001. Si trattava di un
ritrovamento ritenuto di capitale importanza, dato che in esso vi era
trascritto il luogo di sofferenza degli ultimi due giorni del pittore lombardo
e la data della sua morte. Terminata la telefonica comunicazione, rimasi basito
e fui preso da una intensa eccitazione; non mi aspettavo ulteriori rivelazioni
e di cotale consistenza. Subitamente sgorgò l’inevitabile pensiero della
enigmaticità e stranezza dell’ incedere degli accadimenti che modulavano il rapporto
tra me e i due amici ricercatori di Porto Ercole. Quell’incontro e l’evolversi
positivamente del nostro legame si stava rivelando importantissimo. Ferrini e
della Monaca, in un certosino lavoro di anni, avevano raccolto testimonianze
storiche che riscrivevano gli ultimi giorni della esistenza di Caravaggio e,
pur se a pizzichi e mozziconi, questi reperti mi venivano affettuosamente messi
a disposizione. Il giorno dopo la
telefonata intercorsa con il Ferrini ritornai nel paese marino. Si ripetè una
precedente scenografia, il Ferrini, questa volta accompagnato da Della Monaca,
mi stava aspettando al solito tavolino, del solito baretto, della solita piazza
Roma. Gualtiero portava con sé un computer portatile e un dischetto che
custodiva gelosamente nella mano sinistra.
I due assidui frequentatori di biblioteche e archivi di chiese e chiesette manifestavano un
compiacimento incontenibile. Dopo le solite chiacchiere di circostanza il
Ferrini, con tono spruzzato di marzialità, annunciò che l’insieme di documenti
che mi stavano dando rivestivano un ruolo chiave sulla vicenda del “ famoso foglietto ritrovato nel 2001” e
offrivano una nuova e definitiva versione sulla mancata registrazione nel libro
dei morti del decesso dell’alfiere Montero. Permettevano di formulare una
versione più attendibile della mancata trascrizione della morte del Caravaggio
che rafforzava le ipotesi precedentemente formulate sul ruolo avuto dagli
spagnoli nel merito di tali vicissitudini.
Tutto il materiale passò nelle mie mani e a
mala pena celavo l’entusiasmo e la soddisfazione
non tanto per le nuove importanti
acquisizioni, quanto per la ben riposta fiducia nei due ricercatori locali.
Il foglietto ritrovato nel 2001 si rivela
senza fondamento storico, non può che essere una contraffazione.
Perché NON SI SCRISSE della morte
dell’Alfiere Gaspar Montero?
Prete Guglielmo, il sostituto di Jacopo de
Ventura durante la sua presenza a Roma, aveva tra gli altri il compito di
tenere aggiornati i registri di nascite, matrimoni e morti e a quanto pare non
registrò né la morte dell’alfiere né la morte del Caravaggio. Anche volendo ammettere che qualcuno
avesse preso nota al posto di prete Guglielmo (ma non era nella prassi) si
dovrebbe credere che il Pievano di
Ventura, ritornato da Roma a fine ottobre-inizio novembre 1610 si preoccupasse (“se ne fa la presente notatione”) di
aggiornare i registri registrando la morte dell’alfiere Gaspare Montero, che
gli sarebbe stata comunicata tramite il foglietto, correggesse addirittura la
data in 1610 anziché 1609, ma nel contempo non si avvedesse né si curasse della
nota sul retro dello stesso foglietto, dimostrando di non conoscere – neppure
per sentito dire - della morte del pittore più noto e famoso del suo tempo. Il
Pievano Jacopo di Ventura scrisse della morte dell’Alfiere Montero perché lo
conosceva personalmente e perché qualcuno, al suo ritorno, si preoccupò di
ricordarglielo verbalmente, indicandogli anche il luogo dove era stato sepolto,
molto probabilmente un sepolcreto entro la “parrocchiale”, ma non gli fu mai
consegnato un documento scritto riportante il decesso.
La ragione per la quale il sostituto prete
Guglielmo non registrò la morte dell’alfiere appariva palese in seguito ad
alcuni documenti rinvenuti in aprile 2010 da Gualtiero Della Monaca e da
Alessandro Ferrini. Era stato rinvenuto un testamento in cui l’alfiere, che era
evidentemente amico del Pievano, lascia a costui molti e molti ducati. Guglielmo,
non registrando la morte dell’ alfiere gli avrebbe impedito per dispetto di entrare
in possesso dell’ eredità. Quando di Ventura registrò la morte dell’amico, indicò
anche che “non si scrisse” da prete Guglielmo. Fra parroco e vice
parroco da qualche tempo non scorreva più buon sangue: verso la fine dell’anno
1609 una donna anziana molto povera, non potendo permettersi un avvocato, aveva
implorato il vescovo di Sovana di nominare un arbitro nella persona del Pievano
Jacopo di Ventura, in una causa fra lei e prete Guglielmo che possedeva una sua
casa, ma che non aveva alcuna intenzione di restituirle. Jacopo di Ventura
svolse bene il suo compito, convocò numerosi testimoni e prete Guglielmo
Guglielmini dovette restituire il mal tolto. Nel luglio 1610 era rimasto alla cura della
parrocchia il sacerdote che inizialmente il Di Ventura indicava come “Don”
Guglielmo, più tardi come “Prete” Guglielmo, appellativo dato in segno
di disistima da quando quest’ ultimo, insieme al sagrestano, aveva denunciato
il Pievano al tribunale di inquisizione causandone una detenzione a Roma. In
quel tempo officiava nella chiesina e
nella cappella di Monte Filippo padre Francesco Maccari da Scansano. Dopo
l’accadimento della mancata trascrizione della morte dell’ alfiere Montero, il
pievano chiamò quasi sempre il Maccari a sostituirlo e non più prete Guglielmo,
ogni qualvolta si assentava da Porto Ercole. La ragione per cui la morte del
Caravaggio non venne registrata nel Libro dei Morti della Parrocchia è un fatto
apparentemente inspiegabile, perché si scriveva sempre della morte di qualsiasi
individuo, che fosse morto in casa propria, all’ospedale, fosse parrocchiano o
forestiero, se ne conoscesse il nome o lo si ignorasse, fosse facoltoso o
povero, che si fosse o non si fosse pagato per il “mortorio”. Le disposizioni
sulle “competenze” fra i cappellani alle fortezze e i parroci saranno più volte
ribadite dai vescovi, tuttavia non erano quasi mai osservate neppure con il
parroco in sede, figuriamoci quando i cappellani si trovavano di fronte ad un sostituto. A causa di ciò non è da escludere che prete Guglielmo non scrisse
del Caravaggio non per errore ma semplicemente perché nessuno gli denunciò la
morte del pittore. A Porto Ercole, salvo un ristrettissimo numero di persone,
nessuno venne a conoscenza della morte
di quel forestiero avvenuta nel riserbo del Forte di Monte Filippo e la cui
sepoltura avvenne in forma riservata, in accordo con il governatore e con il
comandante del forte. L’accertamento che una persona sia effettivamente morta è
oggi puntualmente previsto dalla legge relativa all’ordinamento dello Stato
civile che disciplina con opportune norme l’effettuazione della dichiarazione
di morte e la compilazione dell’atto relativo. La dichiarazione di morte deve
essere preceduta da una visita medica sul cadavere. Al termine della visita,
deve essere rilasciato un certificato scritto che va allegato al registro degli
atti di morte. Tutto ciò accade nei casi, per così dire normali, in cui è
possibile assicurarsi direttamente della morte perché il cadavere della persona
defunta è rinvenibile e riconoscibile. In tutti gli altri casi, l’ordinamento
prevede gli istituti della scomparsa e assenza sino alla
dichiarazione di morte presunta. Non dobbiamo pensare che quattrocento
anni fa, nella sostanza, le cose differissero molto dalle nostre leggi. Il
parroco, nel trascrivere la morte di una persona sul Liber Mortuorum o
il suo sostituto nell’annotarne la morte su un foglio, fungevano esattamente da
“ufficiali di Stato civile”, per cui non avrebbero potuto certificare nulla se
non dopo aver preso visione della persona morta. Prete Guglielmo non scrisse
del Caravaggio perché mai lo vide morto, e/o perché nessuno gliene fece
parola. Quando Jacopo de Ventura ritornò
in sede seppe verbalmente della morte del Caravaggio, ma venendo a conoscenza
da prete Maccari che gli spagnoli gradivano un discreto silenzio, forse per la
prima volta in vita sua, per quieto vivere,
fece finta di nulla.
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