REQUIEM PER UN PAVIMENTO_2

REQUIEM PER UN PAVIMENTO

di Rosario Daidone

Quale luogo è più adatto di un oratorio alla recitazione di un de profundis, all’intonazione di una pavana? Le sensazioni dolorose si amplificano fino a toccare le corde più profonde se l’oratorio è quello palermitano della “Compagnia del Crocifisso sotto il titolo de’ Bianchi”, costruito nel 1542 sopra la Chiesa di Santa Maria della Vittoria là dove prima era una porta della cittadella fortificata della Kalsa. Il defunto, anzi i defunti, sono due. Il primo scomparso da piangere, al quale sono mancate persino le prefiche che fingessero dolore, è il pavimento di maiolica fabbricato nel 1765 per il “camerone degli aggiontamenti”, denominato “Salone Fumagalli” in nome del pittore Gaspare che, dall’ottobre del 1776 al febbraio del ’77 ne decorò “ a secco” le pareti. Il secondo è quello dell’oratorio vero è proprio, la sala con l’altare in cui la migliore aristocrazia cittadina biancovestita, votata al soccorso spirituale dei condannati a morte, assisteva alle funzioni religiose. Il camerone riservato alle riunioni è vasto cento metri quadrati e fu piastrellato con duemila e duecento mattoni stagnati “della misura di once dieci di quadro” per ordine di Don Gabriele Lancillotto Castelli, Principe di Torremuzza, uno dei quattro deputati di fabbrica della Reale e Primaria Compagnia, e su disegno dell’architetto-sacerdote Giuseppe Fama Bussi, noto per i progetti e l’assistenza ai lavori di molti edifici cittadini, particolare estimatore dei pavimenti maiolicati . Dell’opera non esiste più nulla, se non i documenti notarili di ordinazione e pagamento ai decoratori di mattoni Nicola Sarzana e Angelo Gurrello, all’aiutante Giuseppe Cosentino e al muratore Giovanni Martinez addetto alla collocazione2. Dal momento che non conosciamo del manufatto né la figura né l’impegno artistico, la perdita, se pur grave, non appare così drammatica come quella dell’impiantito dell’oratorio vero e proprio di cui restano immagini e descrizioni che lo accreditano come una delle più grandi e magnifiche realizzazioni del Settecento siciliano, paragonabile, per bellezza e accensione di colori, soltanto al pavimento esistente nella Chiesa di San Benedetto di Caccamo che allo stesso Sarzana sembra debba essere intestato.Oggi che l’edificio restaurato viene reso ai cittadini, percorso il piano terra senza particolari emozioni, nonostante l’esibizione di una porta in legno che dovrebbe essere quella scardinata da Roberto il Guiscardo nel 1071 vittorioso sugli Arabi, salito lo scalone, completato per intervento dell’architetto Fama Bussi nel 1753 con i lavori affidati ai marmorari Ignazio e Leonardo Musca (quasi tutte rifatte le colonnine delle balaustre per immaginabili furti), il pavimento dell’antioratorio, originariamente in marmo bianco, ora ricoperto da lucidissimi mattoni bianchi e blu, trasmette al visitatore un’immediata e sinistra sensazione per l’improbabile modo in cui le false piastrelle “a onda” sono state montate in antistorico affastellamento di riquadri. Varcato uno dei due ingressi dell’oratorio in balìa a tristi presagi, gli occhi vagano alla ricerca degli smalti e dei colori del pavimento, oggetto di dotte esegesi e di ricorrenti citazioni. Un mare di mattonelle di terracotta moderne indica il naufragio in cui galleggiano le poche originali piastrelle rimaste. Soltanto la fascia perimetrale con ornamentazione di tralci azzurri, partiti in diverse celle, singolarmente insignificanti dal punto di vista commerciale, sembra essersi in parte salvata. Il resto è un monumento alla dabbenaggine, all’incuria, al non cale di chi avrebbe dovuto difendere dallo smembramento e dalla distruzione un’opera d’inestimabile valore storico e artistico. Il mantello pavimentale dell’oratorio, di cui esiste, unica testimonianza, una riproduzione fotografica nell’archivio della Publifoto, eseguita intorno al 1978 in bianco e nero, si giovava di tre distinti registri concentrici. Il primo, staccato dai muri perimetrali da una semplice cornice blu e gialla, insisteva su una decorazione a tralci azzurri che, sul bianco latteo del fondo, si concludeva attorno a quattro scudi con busti di personaggi classici. Il secondo registro, meno denso del precedente, si distingueva per gli ornamenti policromi di foglie e tralci che si dipartivano dagli angoli in cui quattro vasi ricolmi di verdura erano affiancati da coppie di aquile contrapposte. Preludio e antifona nel dispiegarsi delle ampie volute ad una spessa cornice mistilinea a quattro lobi di minuta decorazione che racchiudeva, al centro, la rappresentazione di Mosè che fa scaturire le acque nel deserto. A giudicare dalle dimensioni dell’opera e dalla pallida testimonianza fotografica, la scena doveva essere molto più ricca e articolata di quella del riquadro con lo stesso soggetto affrescato, intorno al 1794, da Giuseppe Testa sulle pareti dell’ambiente, nel contesto di altri episodi biblici legati al tema della morte violenta culminanti nell’affresco della Decollazione di San Giovanni Battista eseguito dal pittore Antonino Mercurio. La centralità e l’enfasi assegnata alla scena di Mosè nell’ambiente destinato alle funzioni religiose, al di là di ogni interpretazione ricercata, sembra sottolineare la particolare importanza che gli illustri committenti riservavano al tema miracoloso per motivi autoreferenziali da ricercare nell’esaltazione del compito di redenzione dei reprobi che la Compagnia, secondo pratiche e ricette consolidate, rendeva “disposti a ben morire” per unanime volere e mandato delle autorità civili e religiose. E’ difficile dire se la pompa ambientale era adatta a suscitare nell’animo dei confrati raccolti in preghiera sentimenti di paradisiache anticipazioni o dolorose sensazioni della perdita da parte dei condannati della bellezza del mondo terrestre. E’ certo però che il fondo bianco del pavimento su cui si stagliavano incoraggianti verzure, il nitore delle pareti esaltato dalla intensa luminosità delle finestre, l’odore dell’incenso, il canto liturgico all’altare, erano inno ed elogio alla bellezza della vita onestamente vissuta. Da qui la Compagnia traeva convinzioni e conforto per l’alto e pur penoso compito di riconciliare gli abietti con l’eterno, fare scaturire l’acqua della salvezza dall’aridità delle ignobili esistenze dei condannati.In preparazione del volume che resta ancor oggi alla base degli studi sulla maiolica siciliana, il pavimento, ancora intero, lo vide, con l’editore Sellerio, Antonino Ragona nel 1975. L’appassionato studioso calatino, che ne rimase entusiasta, non ancora a conoscenza del documento che attesta la presenza del Sarzana nella realizzazione dell’impiantito del salone degli “aggiontamenti”, lo attribuì coerentemente al più celebrato decoratore del Settecento. Nella sua interezza poterono ammirarlo anche altri studiosi. Maria Concetta Ruggeri Tricoli, in una analisi che ignora gli interventi del Fama Bussi, documentati nell’Oratorio dal 1753 al 1766, e la presenza del Sarzana, attivo a Palermo fino al 1786, data della sua morte, fornì alcune interpretazioni simboliche dell’opera originali ma non del tutto condivisibili attribuendone il disegno all’architetto Emanuele Cardona e l’esecuzione a fabbriche napoletane di fine Settecento3. Le scelte decorative operate, le analogie riscontrabili con altre opere dello stesso genere di fabbricazione locale e i contrasti esistenti con i manufatti partenopei arrivati a Palermo, come il pavimento della galleria di Palazzo Comitini firmato da Nicola Giustiniani nel 1761 e soprattutto la misura siciliana delle mattonelle residue, convincono invece a considerare l’impiantito di esecuzione palermitana e cronologicamente precedente l’altra realizzazione maiolicata che arricchiva il contiguo salone in seguito affrescato dal Fumagalli, ora pavimentato con luccicanti piastrelle bianche. In assenza di documentazione specifica, appare particolarmente interessante per la collocazione cronologica dell’opera che abbelliva l’oratorio la verifica delle dimensioni delle singole tessere. In essa, superato il retaggio secentesco della piccola misura di 14,5 centimetri di lato (quadretti), ma non del tutto affermato il “sesto napoletano” (cm. 21,5), che già distingue, assieme alle mattonelle di Palazzo Comitini, la fornitura della sala delle riunioni dell’Oratorio, è puntualmente testimoniato l’uso di quadrittoni di 17, 5 centimetri. Occorre avvertire il lettore che, in occasione della Mostra sul “terzo fuoco”, allestita nel Museo di Palazzo Abatellis nel 1997, i documenti trascritti in calce furono connessi al pavimento dell’oratorio. L’esame diretto dell’ambiente, reso finalmente possibile dalla recente apertura al pubblico del monumento, evidenziando le vistose incongruenze tra i dati forniti dalle carte notarili, le reali misure dell’impiantito e le dimensioni dei mattoni originali residui, orienta invece il riferimento al perduto pavimento dell’attiguo “salone Fumagalli” per il quale estensione di superficie e numero di mattonelle necessarie alla pavimentazione, nelle dimensioni indicate dagli atti, perfettamente coincidono. La verifica sembra essere sfuggita agli operatori del restauro come lascia pensare il fatto che la nostra vecchia ed errata attribuzione fosse presente nei pannelli didattici esibiti in occasione dell’apertura al pubblico dell’edificio. In verità, prima che l’edificio venisse ceduto nel 1987 dalla Curia Arcivescovile alla Regione, i locali subirono diverse utilizzazioni. Vi si celebrò qualche matrimonio intorno agli anni Cinquanta, vi si impiantò una scuola confessionale negli anni Settanta. Dall’immaginabile travaglio i due pavimenti erano tuttavia usciti quasi indenni. Lo smembramento dovette avvenire in tempi più recenti, il guasto dovrebbe rientrare nella generale distrazione e nella poca cura che viene riservata alle opere d’arte della città. Che i pavimenti dell’Oratorio dei Bianchi potessero infatti essere oggetto d’interesse storico e artistico se ne accorsero con anticipo e tempestività d’intervento i ladri. Le misure di tutela sono arrivate, ancora una volta, in ritardo. Eppure, come ha ricordato di recente il direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, Salvatore Settis, i bandi a tutela e salvaguardia dei beni culturali nel Mezzogiorno risalgono ai “retrivi” Borboni a partire dal 1755 e trovano solenne riaffermazione nell’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. “Un principio fondamentale”, come sottolinea Settis, “caso forse unico al mondo, su cui poggia la Repubblica.” Difficile dire in quale villetta, in quale cucina o bagno di città sia finita la fastosa realizzazione che ha lasciato soltanto la tristezza di una bava fotografica. Con quali inflessioni dialettali, con quale apertura di vocali si mostreranno agli ospiti in attesa delle tartine la figura di Mosé e dei compagni sbigottiti, i vasi ricolmi di foglie di quercia e le aquile derubate; difficile dire in quale sotterraneo è avvenuta la macellazione, lo squarto. Una testa mille euro, una mano duecento. Per una figura intera si accede allo sconto. L’aggressione, sferrata in questi mesi dai predatori del centro storico alla residua numerazione civica in maiolica dell’Ottocento, è segno che ormai del patrimonio artistico cittadino si sta raschiando il fondo. La mancanza di interventi e lo spirito di rassegnazione che intorno vi aleggiano fanno pensare che possa essere anche questa una forma, seppure eccezionale, di privatizzazione dei beni culturali.