IL RACCONTO DELLA DOMENICA
La storia che volevo raccontarti
DI SALVATORE GIUSEPPE POMARA
Prologo
Sarebbe
stato uno dei tanti naufragi di emigranti che hanno disseminato di
morti il mare della Sicilia, talmente frequenti che nessuno sembrava
farci più caso, ma non fu così; almeno per lui. Aveva
visto la scena dalla casa sul promontorio - trecento metri di
disperazione fra il barcone spezzato e la spiaggia. Corse e non si fermò
un istante fino a quando l’ultimo naufrago non fu portato a riva. Quando
i lamenti, il frastuono e il vociare cessarono e naufraghi e
soccorritori erano andati via, Pepo si accasciò sulla sabbia e prese
fiato. Poco più in là, i
sacchi di plastica, con dentro la vita e la disperazione di chi non era
arrivato, aspettavano di essere portati via. Rientrò
a casa che erano le tre del pomeriggio. Il tempo di cambiarsi e tornò
sulla spiaggia per allontanarsi subito dopo in direzione del Faro,
sull’altro versante del golfo. Aveva da poco superato il gomito del tratto di costa chiamato Ferro di cavallo, quando percepì il lamento che diventava sempre più distinto man mano che avanzava. «Lo
scoglio, viene da lì!» esclamò, mentre si liberava della camicia e si
gettava in mare. Lo scoglio era a trenta metri dalla battigia, sulla
sinistra. Lo raggiunse in un paio di minuti. Non ci mise molto ad
accorgersi che si trattava di una donna. Addosso aveva soltanto
brandelli di quella che doveva essere stata una veste. Era rannicchiata su un fianco ed era scossa da brividi. «La barca…il naufragio…» ripeteva. «È tutto passato… sei al sicuro.» Cercava di tranquillizzarla, mentre pensava a come portarla a riva. La sollevò per le spalle e la aiutò a mettersi seduta. Lei si prese la testa fra le ginocchia e respirò profondamente. «Qualche minuto così, e sarai in condizione di alzarti». «Penso di farcela» disse subito dopo. Pepo le diede la mano e lei fece il resto. «Capogiri?». «No».
«Te la senti di resistere un secondo?». «Sì». Pepo
scese in acqua, si mise di spalle allo scoglio e tese le braccia
all’indietro; afferrò le mani della ragazza e se la caricò sulle spalle.
Raggiunse così la riva. Il tempo di prendere fiato e i loro piedi affondavano nella sabbia. «Un piccolo sforzo e saremo arrivati» disse Pepo, quando, lasciata la spiaggia, imboccarono il sentiero in terra battuta. La
casa di Pepo, immersa fra gli ulivi e a picco sul mare, era una
struttura in pietra appartenuta da sempre alla famiglia della madre, che
lui aveva restaurato e restituito all’antico fascino. Peccato che da
quando era rimasto solo ci venisse sempre meno. Il
tepore della stanza sulla quale aveva battuto il sole del pomeriggio fu
quanto di meglio potessero desiderare. Asciugamani e accappatoi fecero
il resto. «Latte caldo e miele» fece Pepo, «combatto così i malanni invernali». «Lo
faccio anch’io» rispose lei. Invitava la ragazza a sorseggiare
lentamente, mentre scompariva nella stanza attigua per tornare subito
dopo con un pigiama. «Dovrebbe andarti bene» disse porgendoglielo. Il tempo d’infilarvisi dentro e già dormiva. Pepo le stese sopra una coperta e si sedette nella poltrona di fronte. Pochi minuti e la stanchezza ebbe il sopravvento. Quando aprì gli occhi, erano le quattro del mattino. Uscì in veranda e prese a respirare a pieni polmoni: aria dentro e fuori per aprirgli il torace e intrappolare ossigeno. Si appoggiò alla ringhiera; lo sguardo scivolò sull’ampia distesa di buio, che il giorno avrebbe colorato d’azzurro. Scrutò
il cielo. Di stelle se ne vedevano tante, ma della luna nessuna
traccia. All’orizzonte cominciava a intravedersi la linea di chiarore
che precede l’alba; pensò alla giornata che si era lasciato alle spalle;
e a quell’ora di notte che era già mattino, si sentì in pace col mondo e
con se stesso.
Nuotava;
la ragazza sulle spalle; davanti agli occhi la Statua della Libertà ed
Ellis Island. Aveva sedici anni ed era come se volasse sull’acqua; poi
la riva, la casa sul promontorio…«Ma non ero partito?» si chiese Pepo.
«E l’America dov’è?»
Era
parte del sogno che Pepo stava facendo un istante prima di svegliarsi e
portarsi in veranda. Era soprappensiero e non si era accorto della
ragazza dietro di lui. A piedi nudi non l’aveva sentita arrivare.
Avvolta nella coperta azzurra, sembrava una sirena uscita da un’onda. Gli si avvicinò fin quasi a toccarlo. «Ti devo la vita» disse. Poi abbassò gli occhi, come a non volere arrecare disturbo. Lui le sollevò il mento. «Non mi devi proprio niente» fece. «Mi chiamo Marian Selàm… sono un medico… ho studiato alcuni anni in Italia». «Ecco
spiegato l’italiano! E comunque, chiunque tu sia, sei la benvenuta! Io
sono Pepo Ginestra e questa è casa tua» disse mentre le porgeva il telo
per la doccia e le mostrava il guardaroba di fronte. «Lei ne sarebbe
felice» aggiunse, «scegli quello che ti serve». Era
tanto che non posava gli occhi sui vestiti della moglie, e il vederne
poco dopo uno addosso alla ragazza gli diede una stretta al cuore. Solo una seconda vita avrebbe potuto fargli dimenticare la prima, ma sapeva che non sarebbe stato possibile. Bastarono un giorno o due perché Marian si riprendesse, ma si fermò nella casa sul promontorio per un po’. Quando
rientrò in città, ospite di Pepo, non era più un’immigrante
clandestina. Era libera di muoversi e andare dove voleva. Si fermò in
Sicilia alcuni mesi, dopo andò via e tornò a fare il medico; era stata
assunta da un’organizzazione umanitaria. Esattamente
due anni dopo essere andata via, ricevette una busta. Era stata spedita
da Pepo; conteneva un certo numero di fogli dattiloscritti e una
lettera.
Cara Marian – scriveva Pepo – questo è il manoscritto di cui ti avevo accennato. È
la storia che avrei voluto raccontarti e che alla fine ho deciso di
scrivere. Parla del tempo in cui eravamo noi Siciliani a scrutare
l’orizzonte alla ricerca di quella che chiamavamo allora la Merica…
È
un ritorno al passato, ai luoghi e ai ricordi della mia infanzia,
all’America del nonno e a quella dei miei genitori, che fu anche la mia;
un racconto lungo un secolo: l’odissea di un emigrante ancora in cerca
della sua isola…
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