(parte seconda ed ultima)
Continua il racconto di Giovanni Provenzale testimone della guerra coloniale in Etiopia.
“Vado a dormire tutte le sere ascoltando i canti degli animali, il vento della foresta e
le grida e i canti dei miei compagni che costruivano strade, palazzi, stazioni, ospedali”
“Nel momento che la nostra fatica iniziava a darci buoni frutti, che inviavamo a casa mezzo stipendio al mese ecco che ci trovammo in divisa. Noi credevamo in tutto questo. Abbiamo capito che la guerra porta disastri umani ingiustificabili, ma difendevamo il nostro ‘posto al sole’, le nostre fabbrichette, la nostra giovinezza. I nostri vent’anni si allontanavano precipitosamente. Oggi faccio fatica a capire se esiste un modo diverso di fare la guerra. Forse lei, Sanicola trova una differenza fra la ‘mia guerra’ e quella di oggi in Libia? A noi non piaceva farla ma il mio paese era in guerra!”
Eravamo in un posto dove la natura era meravigliosa il clima ottimo, la dislocazione perfetta. Case con tutti i confort. Si costruivano strade, palazzi, città, ferrovie acquedotti. Il genio italiano era sfruttato al massimo livello. “Ai locali non abbiamo tolto nulla anzi – ha ribadito Giovanni Provenzale - sterminate estensioni di terra abbandonate e bonificate. Immagini questi ventenni marinesi che scoprono altipiani infiniti e vedere che la terra ti dà il grano due volte l’anno. Un miracolo: restavamo a bocca aperta. Altro che Cannavata, Rossella e Bifarera!” Tutti i rapporti con i locali erano secondo le consuetudini del tempo. Rare le esagerazioni. Per i ventenni era una meraviglia. Ragazze bellissime. Quanti hanno portato moglie e figli in Italia? “La mia Africa… - ha continuato a richiamare alla memoria - certo c’era una differenza fra gli indigeni e noi. Queste differenze erano universali. Poi sarebbe arrivato il socialismo, la parità e cosi via. Non scordi che Mussolini arrivato in Africa abolì la schiavitù. Lei vorrebbe processarmi per le leggi che sarebbero arrivate dopo?”
“No, ma oltre le leggi ci sono situazioni umanitarie già dettate all’inizio del mondo…”
“Cioè lei vuol farmi credere che Graziani e i tedeschi di via Rasella dovevano porgere l’altra guancia?”
“Si…” ho risposto temendo il peggio.
“Mi citi un solo popolo al mondo da che tempo è tempo che abbia messo fiori nei suoi cannoni…” Ma gli uomini non amano più la guerra… “E neanch’io”.
Nel bel mezzo della guerra gli inglesi fanno questo ragionamento: tenere 20.000 prigionieri costa ogni giorno, rimpatriarli costa solo una volta. Così il fratello Giuseppe finì in Rodesia mentre Vincenzo e Giovanni furono imbarcati nei piroscafi Saturnia e Vulcania per una “crociera” di oltre 40 giorni facendo il periplo dell’Africa.
‘Tornammo a casa a mani e tasche vuote. Qualcuno tentò di attivare un’imprenditorietà locale, chi cercò ed ottenne posti statali e para statali. I tedeschi si ritirarono dall’Italia lasciando entrare gli americani. Da noi non c’è stato il fenomeno dei partigiani. L’unico che ricordo mori a Milano anche se marinese. Si chiamava Carmelo Clemente, amico di Nenni, grande sindacalista che sposò una parrucchiera parigina. Tentammo di dedicargli una via a Marineo ma alcuni si opposero. Di costui a Marineo non ne ho mai sentito parlare. So che a Milano era importante”.
Di ebrei a Marineo non ne esistevano, tranne uno che si chiamava Ascoli.
Mussolini passò una sola volta da Marineo promettendo acqua a gente che si lavava poco e che non poteva bere a sufficienza. “Poi tutti diventarono antifascisti, smisero la camicia nera e sputarono sul loro passato. Dei nostri 40 milioni di fascisti si persero le tracce! Anche noi scordammo il fascismo perché superato ma non possiamo rinnegare i nostri vent’anni da leoni, vissuti nella mia Africa”.
Fra qualche giorno il fratello Vincenzo avrebbe compiuto 100 anni. L’altro, Giuseppe, era del 1908: portavano fortuna perché erano nati tutti e tre in anni bisestili. Hanno amato l’Abissinia, l’Etiopia di oggi, là sono cresciuti, là hanno scoperto l’amore e il sesso, là hanno lavorato duro cambiando il volto di un paese antichissimo ma fermo da millenni.
“Noi eravamo fieri di tutto questo. Era venuto il tempo di godere tutto questo. Era la belle epoque marinese. Le nostre amicizie infantili là si sono consolidate. Pensi al sodalizio di Ciro Fragale, genio irripetibile e Salvatore Realmuto, falegname maestri d’ascia di famiglia: hanno passeggiato tutte le sere a Palermo in via Liberta per oltre cinquant’anni parlando della ‘loro Africa’. Non hanno saltato una sera”.
Il vapore Vulcania li precedeva e si sentivano sicuri perché in caso di mine sarebbe stato colpito per primo e loro potevano scamparla.
“Il Saturnia ci riportava a casa. Eravamo arrivati secondi dove contava solo arrivare primi. E quindi in faccia avevamo quella delusione di tutti i secondi. I soli felici erano i nostri genitori, le nostre mamme che si vedevano tornare a casa i figli vivi, noi dentro piangevamo leggendoci negli occhi non la sconfitta ma l’orgoglio dei ventenni di un gruppo di marinesi che tornavano da una ‘missione impossibile’ ”
Giovanni Provenzale ai suoi fratelli, a tutti questi ventenni dedica i suoi ricordi, i ricordi con cui va a dormire tutte le sere ascoltando i canti degli animali, il vento delle foreste e le grida e i canti dei compagni che costruivano strade, palazzi, stazioni, ospedali .
Faccetta nera, bell’abissina …
Caro balilla ti ho portato un fiore…
Onofrio Sanicola
PS . Trascrivere questa testimonianza in due pagine è riduttivo e offensivo. Spero qualcuno più bravo colga l’occasione per fare meglio perché questa generazione di “ventenni” e questi tre fratelli meritano di più. I nostri storici locali troppo impegnati in altre storie cercano solo una verità tralasciando l’altra, non meno interessante riva del fiume.
Il rag. Guivanni Provenzale è diventato bisnonno.
RispondiEliminaAlla mamma ai nonni agli zii e sopratutto al bisnonno complimenti per Laura.