Non si può cercare la verità tralasciando l’altra, non meno interessante, riva del fiume
La letteratura sul colonialismo in Africa è ricchissima ed in particolare sull’Etiopia. Centinaia di esperti hanno analizzato questa drammatica esperienza. Si tende più a criminalizzare questo periodo che a spiegarlo. Lo spunto viene da un incontro recentemente avvenuto a Ciminna dove una lunga litania di “sole malefatte” ci ha portato a chiederci: tutto era e fu così? Ci è venuto in mente un altro episodio. Qualche anno fa il presidente del senato tedesco se ne venne fuori con parole tipo “meravigliosa nostra primavera” riferendosi al periodo tedesco noto come “nazismo”. Apriti cielo. Questo signore si dimise e tutti misero a tacere la cosa. Aveva cercato di spiegare che si riferiva alla esaltante esperienza giovanile della sua generazione che poi sfociò nel nazismo più tragico. Un gruppo di marinesi di quella “primavera” sono andati in Africa attratti dal miraggio delle nuove terre, del nuovo “posto al sole“, ma anche animati da un sincero patriottismo. Ne ho incontrato uno di loro che ha rievocato, non senza emozione, questo periodo di inizio novecento ad Harar.
Da giorni Giovanni Provenzale, classe 1916, mi aspettava. Aveva preparato una serie impressionate di documenti e foto. La sua ansia di rievocare la “sua Africa” mi ha contagiato. Non so chi dei due fosse più emozionato. Lui disposto a farsi rubare i ricordi, le emozioni dei suoi vent’anni.
“Lei è partito come fascista ed è tornato antifascista?’ chiedo provocatoriamente.
“Assolutamente no! Intanto non mi piace oggi questo termine. Ho conservato malgrado tutto le mie idee. Avevamo vent’anni, pieni di energie ed entusiasmo. Oggi potremmo dire eravamo un gruppo di ‘giovani imprenditori’ sorretti dallo stato, volontari in cerca di ‘un posto al sole’ per crearci attività imprenditoriali in un nuovo paese bisognoso di tutto”.
Ma là c’erano già i nativi da qualche millennio, insinuo. “Noi non ci siamo mangiati vivi i nativi – reagisce - o li abbiamo eliminati, abbiamo portato una civiltà più nuova o contemporanea. Dai trattori a tutta una serie di tecnologie tipiche della capacità italiana. Pensi uno di Marineo proprio lì inventò la pentola a pressione, altri installarono fabbriche di radio e cosi via”.
E non è sfruttamento questo? “Guardi Sanicola che questo linguaggio esiste ancora oggi in Italia – spiega - Allora era fascismo, oggi cosa è?”
Ho chiesto di mostrarmi fotografie e documenti. Mi ha sciorinato un archivio di documenti personali, dalla carta d’identità con scritto di “razza ariana”, al permesso di imbarco sulla Saturnia e cosi via.
Poi gli album fotografici. E’ stato un colpo. Ho dovuto prendere fiato. Stropicciare gli occhi.
Mi aspettavo squadracce fasciste, baionette, gagliardetti, carri armati sullo sfondo, mortai.
Più di metà album erano leoni, zebre, cammelli ed una infinità di animali locali. Poi altra sorpresa. Ancora più sbalorditiva. Una quantità di foto di marinesi abbigliati come nei figurini dei sarti stile anni ‘20, ‘30, ‘40. Era la generazione del bughi-bughi, dei seni che ballavano con lo stesso ritmo delle gambe, delle pagliette e dei lustrini, delle gonne al ginocchio, delle scollature a V, delle gambe a fil di ferro, dei capelli tagliati alla maschietto. Tre uomini elegantissimi hanno attirato la mia attenzione. Fanno parte veramente di modelli da figurini.
“Sono i miei fratelli Giuseppe e Vincenzo”. Possibile che tutti e tre i fratelli fossero ad Harar chiedo incredulo. “Si tutti volontari ed uno addirittura sposato…”
Le foto riprendevano scene di feste, picnic ed eventi locali già viste in migliaia di film. Sino a quando la guerra non li aggredì…
Faccetta nera, bell’abissina…
Mamma non piangere
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