Questo articolo è stato pubblicato sul guglielmo il 20 dicembre 2010 ripreso dal Segno mensile della diocesi ambrosiana. Prende il posto di un lavoro su Galeno che doveva uscire ieri se non fosse che ricevo una telefonata da un amico di Marineo che mi fa parlare con un altro di Marineo in partenza per Istambul. "Dacci qualche informazione su San ciro a Istambul !" . Per prima cosa non sono Wikipedia (strumento utile ma anche infame che fa passare per sapienti anche i mistificatori), poi abbiamo fior di biografi a Marineo che sanno persino che numero di piede avesse San Ciro (oggi maestri mistificatori che ogni giorno svalutano sempre di più i loro lavori ). Quindi mi sono ricordato di questo lavoro semigiovanile e lo ripropongo. Mi scuso con chi aspettava il frutto delle mie ricerche su Galeno ... ma avviso che una parte di questo lavoro somiglia a questa esperienza costantinopolitana. Credo di meritare come ricompensa una "relazione" su come sia cambiata la "mia" Istambul.
lunedì 20 dicembre 2010
COSTANTINOPOLI BISANZIO ISTAMBUL ZAVERGOROD !
Non
so se siete mai stati a Istambul. Una volta si chiamava Bisanzio e prima ancora
Costantinopoli. Dovreste andarci prima o poi. Anzi sbrigatevi perché non so se
riuscirete a vedere ancora il ponte di Galata sul Corno d’Oro. Credo che sia
sempre esistito e che nulla sia cambiato nel corso dei secoli. Io debbo vederlo
assolutamente tutte le volte che sono a Istambul, e ci sono dei periodi che mi
invento un viaggio di lavoro in Turchia per poter andare su quel ponte. Non
confondetevi con Venezia e il Ponte dei Sospiri, con il Ponte Carlo a Praga, o
il Ponte Vecchio a Firenze e cosi via. Qui non si tratta di sospiri, arte o
cuori infranti. Ora questo ponte è di ferro ma una volta era di legno, ora ne
hanno costruito uno nuovo i francesi lì accanto e temo che il vecchio ponte non
lo rivedrò più. Su questo ponte sono passate quasi tutte le reliquie della
cristianità: dalla Sindone al ginocchio di San Giovanni Battista, da San Ciro a
… e cosi via. Ovviamente anche le reliquie musulmane alcune delle quali si
trovano lì sopra al Topkapi, vicine alle nostre, come il mantello di Maometto,
i suoi capelli, e altre ancora. Ma questo anche se mi procura emozione, fa
parte delle tante cose che ogni giorno vediamo da turisti. Su questo ponte
transitavano almeno tre gruppi di partecipanti ai diversi concili in diverse
epoche. Unisce praticamente Kadikoy a Topkapi per usare due luoghi fra i più
noti. La mattina mi alzo di buon ora e lascio il mio albergo a Pera e scendo
giù in riva al Corno d’Oro passando vicino a Galata. L’aria sa di umidità
rancida, c’è una nebbia che avvolge tutto, simile alla nostra è sospesa e si
vede che non è “stabile”, loro la chiamano come da noi ”terrena”, forse perché
si muove sfiorando il terreno come fosse fumo. Arrivo sul ponte e anziché
passarci sopra come fanno tutti i turisti, scendo per una scaletta che mi
porterà sotto il ponte, dove si trovano fra destra e manca un centinaio di bar,
caffè, ristorantini e negozietti. L’odore non è certamente appetitoso. Mi siedo
e mi offrono immediatamente un the. Cai, Tamam? Teskur. Tre parole: The? Sta
bene, Grazie. Da questo momento e per circa un’ora berrò almeno cinque the
fortissimi, poi inizia una sfilata interminabile di gente. Russi che chiamano
Istambul ancora Zavegorod, bulgari, persiani, curdi, armeni, ebrei, indiani,
albanesi di lingua turca, ciprioti, venditori di acqua, di the, di cocomeri a
fette, macedoni, greci sopravvissuti a Smirne, del Pireo, di Salonicco, preti
musulmani e monache francesi, tedeschi che sembrano ottomani, italiani di
Genova e Venezia che forse non sono mai stati in Italia, venditori di pane, di
panini con il pesce, venditori di aspirine e cose inutili. Donne con il facchino
con la sella e donne con il velo e l’ombrello, polacchi a centinaia e slavi di
ogni dove, siriani, irakeni. Tutti comunicano fra loro in qualche modo. L’uomo
più semplice parla tre lingue. Uno attacca bottone con me chiamandomi padrone,
un altro vuole scambiare qualcosa. Alla fine sono uno di loro e fra partite a
dama e the arrivo a mezzogiorno. Un americano fotografa la qualsiasi me
compreso e passa nell’indifferenza generale. Qualcuno sente il richiamo del
muezzin e si allontana verso la moschea altri continuano il loro infinito
cammino di mercanti. Poi alla fine risalgo la scaletta a metà ponte e finisco
nel più straordinario bagno di folla. Un’ora di incontri indescrivibili. Sembra
che tutti i popoli e razze del mondo si siano dati appuntamento sul ponte di
Galata. Lascio il ponte e arrivo all’ingresso della grande moschea Sultan
Ahmet. Sembra che tutta quella gente si sia trasferita dentro la moschea.
Conoscendo un po’ il rituale passo per la porta principale solitamente
riservata ai musulmani. Abluzioni, piedi e mani sino all’avambraccio lavate
nelle fontanelle, viso sino alla nuca e scarpe depositate. Un saluto al Dio
comune e poi esco verso Aghia Triada - Santa Trinità. Incenso che sembra
nebbia, cantilena ortodossa, musica di rito bizantino fedeli in piedi e
officiante dietro il cancello dell’altare maggiore. Sì, sono veramente gli
stessi che ho incontrato sul ponte: greci di Macedonia, di Smirne, di Cipro, di
Alessandria, di Atene, bulgari e tantissimi russi. Mi offrono il pezzetto di
pane ospitale e fraterno. Aghia Triada è il Vaticano ortodosso. Ci sono venuto
altre volte cercando tracce di San Ciro, ma l’unica cosa che ho ottenuto sin
ora è che loro lo conoscono come i santi anargiri e che le sue ossa sostarono
in santa Maria in Chora. Impossibile ottenere di più in un fine settimana. Poco
dopo esco. Davanti la sinagoga non c’è nessuno e la porta è chiusa. Qualche
scritta sui marciapiedi uno sgabello vuoto, la porta chiusa. Un vecchio alzando
gli occhi mi fa capire che oggi non c’è nessuno. Proseguo verso la chiesa
protestante di San Giorgio. Chi pensava a quei tempi al nostro San Giorgio di
Marineo. Un cartello in inglese mi avvisa su orari e giorni dedicati al culto.
Meglio, perché le chiese protestanti sono spoglie. Continuando sono passato almeno
davanti tre chiese ortodosse. Due le conosco bene ma la terza mi incute timore.
E’ Santa Sophia. Ovvero la Divina Intelligenza dove per oltre 1.000 anni la
nostra religione è cresciuta e si è fortificata. Non esiste altro luogo al
mondo dove … basti pensare che il sultano Maometto IV nel quindicesimo secolo
avendo preso Costantinopoli colpì violentemente un suo soldato che stava
staccando una parte del pavimento in mosaico gridandogli più o meno: vai a
saccheggiare la città ma non toccare Santa Sophia. Arrivo finalmente a
Sant’Antonio una chiesa fra il moderno e l’indefinibile. Piena di filippini,
ganesi, ugandesi, portoricani. Un prete tedesco dice la messa in inglese e
francese. Confessionali dedicati alle varie lingue. Penso che difficilmente
oggi andrò a messa. Esco sconsolato e proseguendo nella stessa strada passo
davanti alla chiesetta di Santa Maria dei Genovesi. Da fuori sembra più un
collegio che una chiesa. Dopo vent’anni che vado a Istambul a sentire messa in
tutte le lingue finalmente ho trovato il posto giusto. “ Bèh sono a casa” mi
dico. Una predica breve con accento toscano, a me tocca passare per le offerte.
Finalmente sereno prendo la strada dell’ufficio. Addio Galata vecchio ponte che
riuscivi a tenere assieme tutta quella gente senza chiedere passaporto,
religione o razza. Torno a casa. Cosciente che un altro pezzo di mondo sta
sparendo.
Giovedì mattina scendendo dal Passetto verso il Crocifisso, nel giorno del grande mercato ad un tratto sento: Iavas, Iavas, Piano piano, più avanti un altro “ Ellate Kirios, ellate kiorios, un altro ancora Deime prossime, Selam . selam” e cosi via. Senza parlare di dialetti … Allora mi rendo conto che per miracolo tutto quello che c’era sopra e sotto il ponte di Galata si è salvato.
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