GIOVANNI PERRONE CI SEGNALA QUESTO ARTICOLO USCITO IERI SU SICILIA INFORMAZIONE
La Sicilia araba tollerante?
Ecco cosa insegna la storia.
Pasquale Hamel , storico
Ma è proprio vero che negli anni in cui gli arabi furono padroni della Sicilia,
parlo dei secoli dal IX al XI, l’Isola sia stata un luogo di tolleranza
di pace? La risposta, alla luce di quanto normalmente si racconta,
sembrerebbe scontata. Ci si potrebbe accontentare, per averne conferma,
di leggere un capolavoro della storiografia ottocentesca come “Storia
dei musulmani in Sicilia” di Michele Amari.
Amari, con puntualità, ripercorre infatti quel periodo
rilasciandocene un’immagine particolarmente positiva, per cui, chi
legge l’opera dello storico siciliano si fa un’idea ben precisa del
periodo della dominazione araba come di una parentesi luminosa della
storia siciliana. Fino a qual punto questa di Amari può essere
considerata una corretta rappresentazione di quel tempo?
Diciamo subito che Amari, non è solo un grande storico,
è anche un uomo impegnato politicamente e che la sua cultura è figlia
di quelle sensibilità intellettuali proprie di molti uomini
dell’Ottocento motivati dalla lotta all’oscurantismo e al
tradizionalismo. Amari è infatti dichiaratamente anticlericale e
sicuramente massone e, in quanto tale, vede la Chiesa e le sue
istituzioni come il fumo negli occhi.
Non meraviglia, dunque, che la sua ricerca storica
sia stata influenzata da forti pregiudizi ideologici e culturali.
Scriveva Goethe che “scrivere la storia è un modo di sbarazzarsi del
passato”, nel caso di Amari potremmo dire che, proprio le sue passioni
politiche, c’è un recupero del passato per poterlo utilizzare a
giustificazione di un’idea. Così, il nostro storico, dovendo portare
acqua al mulino della propria visione del mondo, trova corretto
occuparsi ed enfatizzare un periodo, per fortuna breve, della storia
siciliana, quello appunto della presenza musulmana, caricandolo
oltremisura di positività. E, siccome di quel periodo la ricerca storica
non si era fino ad allora occupata, la narrazione del grande
intellettuale siciliano non ha trovato contraddittori fino al punto da
essere accettata senza contraddittori.
Oggi, però, le cose per fortuna sono alquanto cambiate,
storici di rilievo si sono spinti infatti nello spazio di ricerca dove
sembrava fosse stato detto tutto o quasi. Fra gli altri, due bei libri,
quello di Alessandro Vanoli “La Sicilia Musulmana” e quello di Salvatore Tramontana “L’isola di Allah”,
hanno aperto brecce nella visione consolidata dell’Amari violando e
ridimensionando la visione paradisiaca che lui stesso ci ha regalato.
Ci siamo chiesti, in avvio del discorso, se la Sicilia islamica
fosse quell’esempio di tolleranza che è stato tramandato ai posteri e
la risposta non può che essere quantomeno problematica perché alla luce
dei documenti pervenuti bisogna riconoscere che la tesi di Amari deve
essere riconsiderata. La Sicilia al tempo dell’Islam non fu più
tollerante di come lo furono altri territori del mondo conosciuto dove
un vincitore si è insediato con la forza strappando il dominio ai popoli
indigeni.
Infatti, gli islamici, fin dall’inizio della loro avventura siciliana
– un’avventura che durò 137 anni a causa della strenua resistenza che i
siciliani opposero all’invasore – furono abbastanza rigidi e il loro
impegno teso all’islamizzazione dell’isola non fu per niente
indifferente. Impegno che non si rivolse solo nei confronti delle
istituzioni e delle evidenze architettoniche, creazione di un emirato
islamico e trasformazione di chiese e sinagoghe in moschee, ma si
rivolse soprattutto nei confronti delle comunità cristiane ed ebraiche.
Non per nulla, in maniera più o meno rigida, fu applicato nel tempo, l’aman del califfo Omar,
personaggio reso famoso dalla storia per essere stato responsabile
dell’incendio della biblioteca di Alessandria, uno dei più grandi
delitti contro l’umanità. Questa sorta di editto, elencava tutta una
serie di obblighi o divieti cui erano sottoposti i dhimmi, cioè i non musulmani che vivevano nell’isola. La condizione di dhimmi, diremmo, con linguaggio moderno, di cittadini a diritti limitati, era quella che, secondo il dettato del Corano, veniva attribuita alla gente del libro, cioè agli ebrei e ai cristiani.
Per garantirsi questi pur limitati diritti, i dhimmi dovevano pagare una tassa di capitazione, la jizyae,
se proprietari di fondi, dovevano aggiungere la “kharàg” una sorta di
sovrimposta sugli immobili che i musulmani non erano tenuti a pagare. Ma
erano soprattutto le limitazioni imposte dall’aman di Omar che pesavano
sui dhimmi. L’elenco dell’aman indicava diciassette
divieti estremamente pesanti e in qualche caso addirittura umilianti.
Fra questi divieti, a parte quelli di manifestare e praticare in
pubblico la propria fede e di costruzione o riparazione di edifici di
culto, ve n’erano alcuni che incidevano sulla vita privata dei singoli.
C’era fra questi l’obbligo di ospitare un musulmano nella propria dimora,
quella di cedere i posti a sedere ai musulmani, di non utilizzare selle
per le cavalcature o di non costruire edifici che fossero più alti di
quelli dei musulmani. Ma c’erano anche imposizioni umilianti come quello
di portare segni distintivi per distinguersi dai musulmani; tipico
segno distintivo era, ad esempio, l’obbligo di rasarsi la parte
anteriore della testa. Questi divieti che, ripeto, non furono sempre
applicati rigidamente, e la pesantezza delle imposte applicate, furono
lo strumento che consentì di attuare una rapida islamizzazione dell’isola,
fatto a cui gli stessi governanti musulmani cercarono di porre un freno
per ragioni economiche. Le conversioni facevano venir meno le ingenti
risorse provenienti dalle imposte cui erano sottoposti i dhimmi.
Questa situazione vessatoria, ben lontana dalla idea comune di tolleranza
cui ci ha abituati certa letteratura, ci da anche la chiave di lettura
dello straordinario successo della conquista normanna. Trecento o mille
cavalieri normanni che furono, il numero è imprecisato, pur ben armati e
motivati, non avrebbero mai potuto battere le migliaia di armati
islamici presenti nell’Isola se non avessero avuto l’aiuto dei residenti
cristiani cui si aggiunse la sapiente politica di sfruttamento dei
conflitti e delle lotte fra i potentati isolani.
Tornando al nostro tema, con buona pace di quanti ancora coltivano il mito della presenza musulmana in Sicilia, bisogna riconoscere che la tolleranza non fu la cifra specifica di quel tempo quanto piuttosto, e anche qui da prendere cum grano salis,
del successivo periodo normanno; il Granconte Ruggero d’Altavilla e il
figlio Ruggero II, opponendosi alle insistenze di Roma che avrebbe
voluto una immediata ricristianizzazione dell’Isola, intuirono infatti
che, quel che chiamiamo oggi tolleranza, sarebbe stata una valore
aggiunto per il benessere dei loro domini e non ebbero dubbi a farla
propria.
Quando abbiamo "parlato" di Federico II abbiamo fatto gtande fatica a trovare chi "volesse " intervenire. Sono stati più i commenti "a posteriori" tipo "le verita espresse nel passeggio" che chi avesse "vera materia di discussione". E' tipico dei mediocri millantare versioni lette qua e la che vorrebbero confutare verità sostenute da anni di studio. Il professor Hamel, molto conosciuto a Marineo, "discute e affronta" queste "verità assodate" con il taglio dello studioso. Sarebbe un ottimo interlocutore , ma Marineo non considera "accettabili " le altrui opinioni e vive ancora sotto una dominazione culturale vergognosa , monopolizzata da loschi individui per altri fini.
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