di Francesco D’Agostino
Carta araba della Sicilia consultabile in redazione |
Ebbene, forse voi non
ci crederete, fu proprio la dea dell’Amore, che decise di intervenire. I
soldati e le guardie non avevano più la forza di combattere, i cavalli
sbandavano e si erano fatti lenti e riottosi. I due giovani principi, esausti,
sollevarono per un attimo la visiera dei loro elmi. Bastò quell’attimo perché
la poca energia di cui ancora disponevano si convogliasse nei loro sguardi. Come due veloci
saette che nelle notti d’estate gli astri cadenti squarciano di luce il cielo,
i loro sguardi si incontrarono, si trafissero, si riconobbero, si arresero alla
forza irresistibile che li spingeva uno verso l’altra, dimentichi dell’odio
passato, spronati da una dolcissima curiosità, da un incontro fino ad allora
sconosciuto. Scesero dalle loro cavalcature che andarono libere senza
allontanarsi. Sicì si avvicinò a Lia, si tolse l’elmo, lei si avvicinò e le sue
chiome brune si disciolsero lungo le sue spalle. Erano bellissimi e
non ci fu bisogno di parole. I loro occhi si dissero tutto, d’impeto le loro
labbra si unirono, suggellarono quella notte senza più sfidarsi un patto d’amore
e di pace. Gli dei erano soddisfatti e questo, nelle favole di solito è il
lieto fine, senonchè, oltre ai capricci degli dei mettici pure le stupidaggini
umane che spesso capovolgono i buoni sentimenti, inventando quelle crudele
assurdità di cui la storia è piena. Cari amici, le
fazioni orientale ed occidentale continuarono ad affrontarsi, nonostante Sicì
cercasse di convincere il suo augusto padre a far deporre le armi nel nome di
un diverso futuro, improntato nello scambio pacifico e prosperoso e altrettanto
facesse Lia con il re ciclope. Inutilmente, tanto che nelle corti avverse si
decise di organizzare un torneo all’ultimo sangue, sovvertendo le antiche
regole cavalleresche. I due giovani
innamorati si incontravano di nascosto, si amavano sotto la luna, aspettando il
giorno in cui poter proclamare al mondo intero e, soprattutto, ai loro genitori,
il loro amore. Quando venne bandito il torneo, si resero conto che sarebbe
stato difficile riconoscersi sul campo di battaglia, perché nessuno avrebbe
potuto portare insegne né i cavalli portare gualdrappa che avvertissero il
riconoscimento del cavaliere. Come
fare? Subito i due innamorati decisero di affidarsi ai loro scudieri che li
avrebbero informati su un segno di riconoscimento che pur passando inosservato
agli altri partecipanti al torneo, consentisse loro di individuarsi. C’era però
un nemico in agguato, pronto a mandare a monte i loro piani, e aveva le
sembianze del cattivo generale “Mafione” che, attraverso i suoi spioni, era
venuto a conoscenza degli incontri
segreti dei due giovani. Da tempo Mafione
tramava per rovesciare il re Spigadoro e usurpare il trono, ma prima voleva
sbarazzarsi del giovane Sicì, di cui temeva i valorosi slanci. Il torneo
rappresentava l’occasione d’oro per i suoi piani. Riuscì a corrompere lo
scudiero di Sicì, che così avrebbe dato
allo scudiero di Lia riferimenti falsi, riportando poi al suo cavaliere
elementi che lo avrebbero depistato.
Potete immaginare le
conseguenze di questo tradimento? Durante la lotta furibonda Lia si comportò
come una leonessa, il suo cavallo sembrava indemoniato. Lia depistata scoccava
frecce a destra e a manca. Una di esse ferì a morte l’amato Sicì e lui lo
stesso, raccogliendo le sue ultime forze, menò un terribile fendente che colpì
il cavaliere nemico proprio nello spazio tra l’elmo e la corazza. Quel cavaliere era
Lia, che scivolò morente da cavallo e giacque a terra, vicinissima a Sicì,
tutte e due morenti, inconsapevoli perché non si erano riconosciuti, con gli
ultimi sguardi rivolti al cielo, come chiedendosi il perché dell’assenza degli
dei. Ma anche gli dei devono arrendersi di fronte alle regole di un torneo,
devono limitarsi ad assistere alla lotta frenando la pietà. Alla fine del torneo,
si contarono i morti. Re Spigadoro abbracciò il corpo esamine di Sicì e cominciò
a singhiozzare per la perdita del suo amato erede. Pianse tanto, ma tanto, che
con le sue lacrime si formò un fiume in piena che irrigò una distesa brulla
dove nacquero abbondanti messe di biondo grano. Re Occhiosolo,
invece, restò muto, ma lo invase una tremenda ira contro se stesso. Il suo
orgoglio e la sua ostinazione avevano portato a morte la sua unica figlia,
valorosa e bellissima. Cominciò a colpire la terra con i pugni, e i colpi erano
così forti ma così forti, da provocare uno sconquasso nella terra e nelle rocce
d’oriente. Con la sua forza
scatenata tanto colpì da provocare un terremoto che fece sollevare un enorme
vulcano, scatenando un vero fuoco infernale, da cui si levarono con un rombo
assordante cumuli di rocce ardenti, canali incandescenti di lava, cenere e
lapilli, seminando il terrore nei contadini delle campagne circostanti. Con il capo cosparso
di quella stessa cenere, sotto il sole oscurato dal fumo che usciva dal cratere. Occhiosolo si avviò, solo, ad
incontrare Spigadoro, che aveva esaurito tutte le sue lacrime. I due re si
abbracciarono commossi. Dov’era l’odio che li
aveva divisi? Non c’era più. Restava solo tanta stanchezza per la guerra che li
aveva fiaccati e un desiderio di pace, una pace duratura che ponesse fine alle
guerre fratricide e desse una nuova speranza alle loro genti e alle future
generazioni. Giurarono di coltivare il ricordo dei loro passati errori, perché
fosse di monito e perché il sacrificio dei caduti non andasse perduto. No, il sacrificio dei
giovani principi non andò perduto..Dall’unione dei loro due nomi derivò la
denominazione di quella splendida isola..SICI-LIA!
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