domenica 12 aprile 2015

SI PUò UCCIDERE PER TROPPO AMORE ?

Si può uccidere per troppo amore?
Di madri omicide-suicide le cronache di questi anni sono piene. Uccidono per disperazione, rabbia, vendetta trascinando con loro bambini innocenti ed inermi. Credono così di salvare le proprie creature da più gravi patimenti. L’omicidio e il suicidio come liberazione. La madre disperata che uccide il proprio figlio è, paradossalmente, in preda a un delirio affettivo: vuole evitare che i propri piccoli vivano nella medesima situazione insopportabile dalla quale ritiene di non poter più venir fuori, se non con una soluzione finale e radicale: l’eliminazione dei propri figli e di se stessa. Come la protagonista della tragedia greca Medea l’infanticidio è spesso il gesto estremo per punire un marito ritenuto colpevole. E’ il caso di Concetta Sileci che cancellata ogni speranza di una vita migliore volle punire, in maniera inconsapevole, un marito odiato perché incapace di dare alla famiglia una vita dignitosa? Oppure uccise per troppo amore, ma con lucida determinazione, per sottrarre i figli alla fame e alla miseria di una vita che ormai per lei era insopportabile?
Concetta era sprofondata nel buio della depressione. Chiusa nella sua disperazione - viveva quasi reclusa in una casa popolare di via Romeo - non chiese aiuto a nessuno e nessuno dei suoi familiari si era accorto della sua sofferenza.
“Mia sorella era un tipo che non dava soddisfazione a nessuno” così la descrisse un fratello al tempo della disgrazia. “Concetta era una brava mamma capace di lavare la sera i vestiti dei figli e all’indomani farglieli ritrovare belli puliti e stirati” raccontò uno zio. Una brava mamma e una buona moglie per quel marito malaticcio e un po’ musone sul cui giudizio la comunità marinese si divise: sfaticato e reo per quella tragedia perché neanche capace di chiedere aiuto per se stesso e la sua famiglia per alcuni, povero diavolo e perseguitato dalla sventura per altri.
Giuseppe Lazzara sfortunato lo era davvero. Da più di un anno gli era stata sospesa la pensione di poche migliaia di lire al mese dal Ministero della difesa per una pleurite presa quando d’inverno era andato a fare il soldato in artiglieria a Casale Monferrato.
“Avevo chiesto lavoro a tutti magari non troppo pesante” si difese quando tutti lo accusarono di essere il responsabile di quel dramma.
“I suoi bambini potevano essere accolti in collegio come altri bambini che le famiglie non possono sfamare” si giustificò Domenico Lo Vasco il sindaco di allora. Ma lui, magro, allampanato, il viso scarno per i patimenti subiti non aveva bussato abbastanza alle porte delle “istituzioni”.
Eppure in molti in paese cercarono di aiutarlo. Prendeva spesso pane e pasta da Salvatore Mancino che gli accordava credito, e non era il solo, e lo aiutava a sbrigare le pratiche per ottenere un sussidio dall’Eca. Oggi a quarantatre anni dalla tragedia la comunità marinese, come allora, si interroga. Si poteva fare di più? O solo colpa di quella famiglia così chiusa, trincerata nella propria disperazione e orgogliosa nella sua povertà estrema?
Mariolina Sardo

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