Si può uccidere per troppo amore?
Di
madri omicide-suicide le cronache di questi anni sono piene. Uccidono
per disperazione, rabbia, vendetta trascinando con loro bambini
innocenti ed inermi. Credono così di salvare le proprie creature da più
gravi patimenti. L’omicidio e il suicidio come liberazione. La madre disperata che
uccide il proprio figlio è, paradossalmente, in preda a un delirio
affettivo: vuole evitare che i propri piccoli vivano nella medesima
situazione insopportabile dalla quale ritiene di non poter più venir
fuori, se non con una soluzione finale e radicale: l’eliminazione dei propri figli e di se stessa. Come
la protagonista della tragedia greca Medea l’infanticidio è spesso il
gesto estremo per punire un marito ritenuto colpevole. E’ il caso di
Concetta Sileci che cancellata ogni speranza di una vita migliore volle
punire, in maniera inconsapevole, un marito odiato perché incapace di
dare alla famiglia una vita dignitosa? Oppure uccise per troppo amore,
ma con lucida determinazione, per sottrarre i figli alla fame e alla
miseria di una vita che ormai per lei era insopportabile?
Concetta
era sprofondata nel buio della depressione. Chiusa nella sua
disperazione - viveva quasi reclusa in una casa popolare di via Romeo -
non chiese aiuto a nessuno e nessuno dei suoi familiari si era accorto
della sua sofferenza.
“Mia
sorella era un tipo che non dava soddisfazione a nessuno” così la
descrisse un fratello al tempo della disgrazia. “Concetta era una brava
mamma capace di lavare la sera i vestiti dei figli e all’indomani
farglieli ritrovare belli puliti e stirati” raccontò uno zio. Una brava
mamma e una buona moglie per quel marito malaticcio e un po’ musone sul
cui giudizio la comunità marinese si divise: sfaticato e reo per quella
tragedia perché neanche capace di chiedere aiuto per se stesso e la sua
famiglia per alcuni, povero diavolo e perseguitato dalla sventura per
altri.
Giuseppe
Lazzara sfortunato lo era davvero. Da più di un anno gli era stata
sospesa la pensione di poche migliaia di lire al mese dal Ministero
della difesa per una pleurite presa quando d’inverno era andato a fare
il soldato in artiglieria a Casale Monferrato.
“Avevo
chiesto lavoro a tutti magari non troppo pesante” si difese quando
tutti lo accusarono di essere il responsabile di quel dramma.
“I
suoi bambini potevano essere accolti in collegio come altri bambini che
le famiglie non possono sfamare” si giustificò Domenico Lo Vasco il
sindaco di allora. Ma lui, magro, allampanato, il viso scarno per i
patimenti subiti non aveva bussato abbastanza alle porte delle
“istituzioni”.
Eppure
in molti in paese cercarono di aiutarlo. Prendeva spesso pane e pasta
da Salvatore Mancino che gli accordava credito, e non era il solo, e lo
aiutava a sbrigare le pratiche per ottenere un sussidio dall’Eca. Oggi a
quarantatre anni dalla tragedia la comunità
marinese, come allora, si interroga. Si poteva fare di più? O solo colpa
di quella famiglia così chiusa, trincerata nella propria disperazione e
orgogliosa nella sua povertà estrema?
Mariolina Sardo
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