giovedì 6 marzo 2014

RE RUGGERO



Il 27 febbraio 1154, Ruggero II, fondatore del regno di Sicilia, dopo 24 anni da monarca, moriva a Palermo, a causa di un non precisato male: “febbri” come indicano alcuni cronisti fra i quali Romualdo II di Guarna, e il più puntuale Abulfeda il quale afferma “morì di un’angina”. “Sfinito dalle enormi fatiche, oltre che per le intemperanze di carattere sessuale che ne danneggiarono l’integrità fisica” così scrive, con una non troppo malcelata cattiveria, Ugo Falcando un altro cronista, molto accreditato.
Il grande storico dell’ottocento, Michele Amari, riflettendo su alcuni comportamenti assunti dal sovrano negli ultimi anni della sua vita, in particolare quello relativo all’atroce condanna di Filippo di Madhia, condannato al supplizio in base ad accuse generiche e non verificate, insinua che, già da qualche anno, il sovrano siciliano fosse vittima di un certo indebolimento fisico e mentale che influiva perfino sulle sue decisioni di governante al punto da fargli di fatto sconfessare le scelte politiche, si riferiva alla tutela della convivenza fra le comunità esistenti nel regno, che avevano contraddistinto il suo governo. Tornando alle due versioni, quella di Romualdo e quella di Falcando, si può, a chiare lettere affermare che non fossero contraddittorie al punto da potersi anche comporre: le “febbri”, indicate dal vescovo Romualdo, aggredendo un corpo indebolito, come affermato da Falcando, avevano portato alla morte il primo re di Sicilia. A parte, però, queste illazioni, non abbiano altre informazioni sullo stato fisico del sovrano relativamente a questi ultimi anni.
Sulla poca lucidità di Ruggero, del suo essere pienamente responsabile delle proprie azioni – stato messo in dubbio dall’Amari – troviamo una smentita. Non più tardi di tre anni prima, il re assume un’iniziativa che, a volerla leggere con attenzione, ci conferma non solo il pieno possesso delle sue facoltà mentali ma una lucidità politica invidiabile. Infatti, nel corso della Pasqua del 1151, senza chiederne la tradizionale e preventiva autorizzazione a Eugenio III (1145-1153), che allora era il pontefice romano, Ruggero associò al trono il figlio maggiore Guglielmo e lo fece consacrare re di Sicilia.
Un  atto, l’associazione al trono, che, se si vuole, era abbastanza normale nel passato, al quale ricorrevano soprattutto, ma non solo, i monarchi carolingi, ma che, nel giovane Regnum Siciliae, assumeva un significato politico più pregnante. Ruggero, associando al trono il figlio, sgombrava il campo da ogni e qualsivoglia altrui pretesa ed affermava la legittimità incontestabile della continuità dinastica della sua  discendenza. Ma quell’atto lascia, però, intuire che egli si rendesse conto che, nonostante ormai la monarchia fosse consolidata, fossero presenti quei germi della crisi che sarebbero potuti riemergere, come in effetti si verificò, dopo la sua morte.
Pasquale Hamel
Siciliainformazioni.com
SEGNALATO DA P.G.

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