Il 27 febbraio 1154, Ruggero II, fondatore del regno
di Sicilia, dopo 24 anni da monarca, moriva a Palermo, a causa di un non precisato
male: “febbri” come indicano alcuni cronisti fra i quali Romualdo II di Guarna, e il più
puntuale Abulfeda il quale afferma “morì di un’angina”. “Sfinito dalle enormi
fatiche, oltre che per le intemperanze di carattere sessuale che ne
danneggiarono l’integrità fisica” così scrive, con una non troppo malcelata
cattiveria, Ugo Falcando un altro cronista, molto accreditato.
Il grande storico dell’ottocento, Michele Amari, riflettendo su alcuni comportamenti
assunti dal sovrano negli ultimi anni della sua vita, in particolare quello
relativo all’atroce condanna di Filippo di Madhia, condannato al supplizio in
base ad accuse generiche e non verificate, insinua che, già da qualche anno, il
sovrano siciliano fosse vittima di un certo indebolimento fisico e mentale che influiva
perfino sulle sue decisioni di governante al punto da fargli di fatto
sconfessare le scelte politiche, si riferiva alla tutela della convivenza fra
le comunità esistenti nel regno, che avevano contraddistinto il suo governo. Tornando
alle due versioni, quella di Romualdo e quella di Falcando, si può, a chiare lettere affermare
che non fossero contraddittorie al punto da potersi anche comporre: le
“febbri”, indicate dal vescovo Romualdo, aggredendo un corpo indebolito, come
affermato da Falcando, avevano portato alla morte il primo re di Sicilia. A
parte, però, queste illazioni, non abbiano altre informazioni sullo stato
fisico del sovrano relativamente a questi ultimi anni.
Sulla poca lucidità di Ruggero, del suo essere pienamente
responsabile delle proprie azioni – stato messo in dubbio dall’Amari – troviamo
una smentita. Non più tardi di tre anni prima, il re assume un’iniziativa che, a volerla leggere con
attenzione, ci conferma non solo il pieno possesso delle sue facoltà mentali ma
una lucidità politica invidiabile. Infatti, nel corso della Pasqua del 1151, senza
chiederne la tradizionale e preventiva autorizzazione a Eugenio III
(1145-1153), che allora era il pontefice romano, Ruggero associò al trono il
figlio maggiore Guglielmo e lo fece consacrare re di Sicilia.
Un atto, l’associazione al trono, che, se si vuole, era abbastanza
normale nel passato, al quale ricorrevano soprattutto, ma non solo, i monarchi
carolingi, ma che, nel giovane Regnum Siciliae, assumeva un significato
politico più pregnante. Ruggero, associando al trono il figlio, sgombrava il
campo da ogni e qualsivoglia altrui pretesa ed affermava la legittimità
incontestabile della continuità dinastica della sua discendenza. Ma
quell’atto lascia, però, intuire che egli si rendesse conto che, nonostante
ormai la monarchia fosse consolidata, fossero presenti quei
germi della crisi che sarebbero potuti riemergere, come in effetti si verificò, dopo la
sua morte.
Pasquale Hamel
Siciliainformazioni.com
SEGNALATO DA P.G.
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